Prefazione
L’America, la Guerra di Libia, il Fascismo, l’Alimento Mellin, l’Occupazione delle Terre, la Mafia, il Bandito Giuliano, il Comunismo, la Religione. Troveremo anche la “Grande Storia” a fare capolino nelle vite dei protagonisti di questa piccolissima storia. E’ il racconto di tre generazioni di siciliani e di un’epoca appena trascorsa, già lontanissima. Tradizioni, storie e costumi di un tempo che fu e mai più sarà. Non lì, non in quel piccolo paesino della Sicilia. Da un’altra parte, proprio in questo stesso istante, altre famiglie vivono sulla loro pelle, la trasformazione dolorosa di una civiltà contadina in una industriale. E’ il racconto di questa transizione per come traspare dai ricordi di Lilly Domina, che inconsapevole, non può intuire all’epoca dei fatti narrati, di essere parte di un processo storico. Per Lilly c’è solo la gioia, solo l’amore, solo la vita. Le sue quattro sorelle, il fratello, l’adorato papà e la madre. Una figura rispettata, amata e temuta, che giganteggia nel racconto, come solo nei sogni o negli incubi accade. Questo è anche il racconto di un rapporto difficile, che non si risolve e rimane per sempre ad aleggiare come il fantasma di una incomprensione. Lilly ricorda tanto e con una ricchezza di particolari, da far pensare che non abbia mai veramente lasciato il suo amato paese, la sua dorata e incantata Sicilia. Tornano i nomi delle vie, delle famiglie, i volti dei bambini, il prete, i mestieri del paese e poi il grano, gli animali, i sapori e la frutta; tanta frutta che diventerà marmellata o dolce, per la festa di San Giuseppe. Ne emerge un affresco appassionato e vivo, in cui protagonista è anche la natura, che si sente respirare forte in tutte le pagine. Un racconto che l’autrice ha curato e custodito a lungo, con la determinazione e l’ostinazione che si dedica solamente alle cose ineluttabili. Diego Garbini
1900
Siamo in Sicilia, a cavallo del secolo. Il nonno e la nonna materna sono due ragazzi di vent’anni e si amano. La nonna è una bellezza eterea, carnagione chiara, occhi verdi, tutt’altro che una figura del sud, “una bellezza normanna”, come ripeterà sempre il nonno. Niente di più facile, visto che i Normanni fanno parte di quella schiera di popoli che nel corso dei secoli hanno invaso l’Isola.
Il nonno, tarchiato, occhi neri, pelle olivastra, capelli ricciuti e neri come l’ebano, rispecchia perfettamente il tipo latino. Scappano o meglio “se ne fuiono” come si dice in gergo, ma non perché il loro sia un amore travagliato, ostacolato dalle famiglie, tipo Montecchi e Capuleti, no, è la routine; tutti i ragazzi della loro età che desiderano sposarsi “se ne fuiono”. Non ci sono i mezzi per mettere su casa, non ci sono i soldi per comprare il mobilio, sia pur modesto; non ci sono i soldi neanche per comprare un misero pugno di confetti augurali. Non c’è lavoro, non c’è di che vivere, c’è una miseria nera.
La Sicilia è in mano ad un pugno di uomini, i feudatari, che possiedono interminabili distese di fertili terreni. Terreni dove pascolano i loro grandi allevamenti di vacche, di pecore, di maiali neri che assomigliano in tutto e per tutto a cinghiali selvatici, con un lungo muso con il quale scavano sotto terra, per trovare delle cipollette selvatiche di cui vanno ghiotti. La massa è composta di braccianti, giusto appunto solo padroni di due braccia che non sanno di cosa farsene, visto che non possiedono neanche un fazzoletto di terra da lavorare. E’ il periodo delle emigrazioni di massa per l’America e partono da tutte le regioni d’Italia, ma naturalmente il prezzo più alto delle migrazioni lo pagherà il sud. E’ il periodo in cui i poveri emigranti sembra vogliano ripetere le gesta del loro antenato, famoso compatriota Cristoforo Colombo: riscoprire le Americhe! Così anche i miei nonni, poco più che ragazzi, partono alla volta dell’America, pieni di entusiasmo. Il loro titolo di studio è soltanto la terza elementare, ed è il livello più alto che si possa trovare fra gli emigranti che sono per la maggior parte analfabeti e segnano il loro nome con una croce. Ammassati in navi, tutt’altro che da crociera, gli emigranti si fanno dei mesi di navigazione, in condizioni pietose.
Possiamo senz’altro dire che erano gli Albanesi di ieri.
Il nonno raccontava che in molti morivano strada facendo e venivano buttati in mare, senza tanti complimenti. Approdati a Brooklyn, dopo mille peripezie, dopo mille umiliazioni, riescono ad emergere ad un livello abbastanza accettabile. Mettono su una specie di osteria, naturalmente i clienti sono rigorosamente italiani, nessuno altro indigeno si azzarda ad entrare in quei poveri locali, manchevoli di tutto il necessario. Tutto prosegue abbastanza bene, il nonno è un amministratore positivo della sua attività; sono sereni hanno finalmente di che vivere e anche qualcosa in più, possono guardare al futuro con tranquillità ed ecco che arriva una bellissima bambina: la mia mamma. I nonni sono felici ma, come si suole dire, la felicità non è di questo mondo e allora ecco che arriva la prima grana in famiglia. La nonna, dal parto si ammala con problematiche di cuore abbastanza serie; il nonno le prende un aiuto, sta attento a non farla strapazzare e vanno avanti così, alternando periodi abbastanza tranquilli a periodi veramente neri. Un medico italiano gli consiglia di riportarla in Italia; forse la sua aria natia, sarebbe un toccasana per lei, dato che è malata anche di nostalgia per la sua terra e per i suoi vecchi genitori che oramai non vede più da anni.
Il nonno è disperato, non voleva abbandonare tutto quello che si erano costruiti con tanta fatica. I suoi, dalla Sicilia, gli scrivono che là niente è cambiato, c’è sempre la miseria più nera.
Quindi ripartire equivale a ripiombare nel baratro, equivale a veder riaffiorare lo spettro della miseria. La nonna, ancora così giovane, non accenna a riprendersi, anzi si ammala sempre più.
Il nonno è molto innamorato della sua “normanna”, così lui la chiama. Lei conta più di tutto e quindi si decide, vende un piccolo appezzamento di terra, attiguo all’osteria, che aveva comprato con mille rinunce e cosi mette assieme i soldi per fare il viaggio in Italia.
Vorrà dire che quando la nonna sarà migliorata, ritorneranno in America e rimane l’osteria, che gli darà da vivere e per il momento ne affida la gestione ad un connazionale. La bambina è già grandicella; ha già fatto la seconda elementare, parla correttamente in americano e si entusiasma di andare a conoscere i nonni italiani, che non ha mai visto. Partono alla volta dell’Italia, la nonna felice riabbraccia i suoi vecchi e sembra rimettersi. La bambina suscita molto scalpore ed ammirazione, per la sua lingua sciolta.
Giuseppina è un fiore di bambina, assomiglia molto a mamma Mimma, ma è meno gracile di lei, assomiglia anche al papà, quindi occhi verdi e costituzione robusta, senza problemi. Ma la famigliola ha un’altra spada di Damocle sulla testa; scoppia in quel mentre la Prima Guerra Mondiale e quindi non fanno più ripartire gli italiani verso l’estero. Il povero nonno D’Alberti è fuori di sé, se avesse potuto sarebbe volato in America nella sua osteria a guadagnarsi quei benedetti dollari, che tanto gli servivano per mantenere la sua famiglia; ormai il suo amico gli scriveva che non poteva più gestirgliela e doveva chiuderla. Nel frattempo arriva dall’America anche l’altro mio nonno: Domina Mariano. Il nonno paterno è un tipo particolare, alto impettito, porta un mantello doubleface blu e verde, con una grossa borchia dorata per agganciarlo sul davanti, indossa un paio di stivali tutti arricciati sulla gamba e un grosso cappello di peltro, sempre sulle ventitré. E’ molto pieno di sé e molto polemico, ha un’aria sardonica e tu rimani sempre spiazzato, perché non sai quando scherza e quando fà sul serio; a lui assomiglia molto zio Giovanni, fratello di mio padre Francesco.
Zio Giovanni è un autodidatta molto intelligente e pieno di carisma che adopera con successo in politica, trascinando folle di contadini alla politica di Pietro Nenni. Zio Giovanni Domina è un valente artigiano, ha una selleria alla fine di via Calvario, quasi in piazza, davanti all’unica chiesa di Castellana e fa le selle più perfette del paese; per questo la sua bottega è sempre piena di contadini, che portano da lui i loro cavalli, i loro muli, i loro asini.
Zio Giovanni ha due apprendisti che lo aiutano nel suo lavoro. La sua bottega si potrebbe paragonare a un’avviata carrozzeria dei nostri giorni, di quelle che rendono molto bene; quindi lo zio fa studiare i suoi tre figli senza problemi. Sono molto affascinata dallo zio, che arringa continuamente i contadini che gli si stringono intorno e lo stanno ad ascoltare a bocca aperta.
Lo zio Giovanni è un personaggio istrionico, trascinante, ha la politica nel sangue, si scalmana, si agita; è ambizioso, sta per arrivare a certi livelli, ma un suo compagno socialista gli fa lo sgambetto e gli passa avanti. Insomma la nomenclatura del periodo gli assegna un ruolo subordinato e lo zio che era così preso dalla causa, subisce un’amara delusione, cadendo in una tremenda depressione, che gli durerà a lungo e quando finalmente guarirà, ne uscirà talmente scosso e deluso che non si occuperà mai più di politica.
L’ultima componente della famiglia, la piccola minuta e graziosa nonna paterna, ha occhi vivi e furbi come Papà, un dinamismo e una vitalità incredibile, che la porterà a sfiorare i cento anni di età; si chiama Paraola Anna Maria. I nonni paterni stanno benino economicamente; con i dollari che il nonno ha guadagnato in America, lavorando duramente fra i binari della ferrovia degli Stati Uniti, si comprano una piccola proprietà in località San Giorgio, distante dal paese una mezz’ora di cavallo. La vita dei contadini del sud al periodo è molto dura, stanno quasi sempre lontani dalla famiglia, esiliati in modestissime casette di campagna senza né acqua, né luce elettrica e si scaldano alla meglio con delle frasche in un approssimativo caminetto. Il babbo parte il lunedì con le provviste settimanali e torna a casa il sabato per ripartire subito il lunedì.
La terra lo reclama; bisogna dirozzare, seminare, zappettare l’erbetta che altrimenti diventa forte e divora il povero chicco di grano.
La mamma, da poco sposa, ha una montagna di cose da fare: il pane, la pasta fatta in casa per tutta la settimana che stende ad asciugare su dei bastoni. Poi adesso deve preparare il corredino per il nascituro, la sua mamma le è vicina, ma la sua asma peggiora ed il suo cuore è come una vecchia ciabatta. Il nonno materno sta anche lui tutta la settimana fuori di casa a lavorare nella sua campagna presa in affitto, ha ancora due ragazze da sposare e quindi si dà molto da fare per dar loro quel minimo indispensabile.
Se fosse potuto rimanere nella sua America, nella sua osteria avrebbe potuto far loro un corredo da signori, ma oramai il miraggio dell’America è sfumato per sempre. La nonna è sempre più malata e le tre figlie Giuseppina, Maria ed Angelina hanno scelto un marito, una vita lì in Sicilia e quindi bisogna rassegnarsi a fare a meno di quei bei dollari sonanti, che davano loro quell’agiatezza, quella tranquillità economica di cui una famiglia ha assoluto bisogno. Siamo a fine settimana, come tutti i sabati il nonno D’Alberti sella Pepita e parte alla volta di Castellana; per la strada trova un gruppetto di uomini sulla trazzera che osservano due morti ammazzati; il nonno spaventato scende da cavallo e osserva anche lui sconvolto i due poveretti e guardandoli meglio dice: “Ma io li conoscevo!”.
Tutti i presenti rimontano a cavallo e ripartono alla volta del paese per denunciare il fatto ai carabinieri. Il nonno poi racconterà in casa, che i due morti erano di un paese distante da Castellana, ma che avendoli conosciuti in campagna, poteva asserire che erano due persone per bene. Ma in giro, si crea un equivoco, la frase che il nonno dice vedendo i due morti sulla trazzera: “Io li conoscevo!”, viene interpretata come se il nonno avesse detto di conoscere gli assassini, e non quei poveri morti; fatto sta che una mattina parte come sempre per la campagna, per non tornare mai più.
Lo troveranno morto in una mulattiera, lui e la sua dolce cavalla Pepita. Povero caro nonno, aveva lasciato in tenera età la sua terra perché non gli dava da mangiare, era andato in America per cercare di tirarsi fuori dalla miseria e ancora per ridare serenità alla famiglia, era dovuto ritornare in patria suo malgrado.
E là in quella terra avara di soddisfazioni per i suoi figli, aveva trovato la morte, una morte ingiusta. Lui che era così puro e onesto; i suoi carnefici lo hanno voluto punire, come hanno sempre fatto con gli onesti cittadini che vogliono ribellarsi, rivendicare i loro diritti, la loro giustizia, gridare a tutto il mondo lo scandalo che ci coinvolge e ci travolge tutti quanti, nessuno escluso, perché ognuno di noi cittadini anche il più umile, il più insignificante, ha il sacrosanto diritto di non nascondersi dietro a quella umiliante omertà che ci fa diventare piccoli vermi striscianti. Mafia o banditismo locale? Cosa importa, il nonno è morto e il dramma è entrato nella mia casa. Quella cosa così orribile scolpirà nel cuore e nella mente di mia madre una ferita indelebile, che si porterà dietro tutta la vita. Ma la vita continua, il tempo inesorabile scorre lento o veloce senza fermarsi mai, per niente e per nessun motivo; i dolori o le gioie degli uomini non lo riguardano.
Maria e Mario
Nella mia famiglia nasce la primogenita, che dovrà portare, d’obbligo, il nome della nonna paterna: Maria. Dopo due anni nasce Mario ed un “Evviva!”, per la continuazione della stirpe.
Il maschio in Sicilia è un avvenimento da festeggiare con la banda, ma nel 1925 penso che in tutta Italia il maschio sia decisamente più importante di una povera femminuccia. La continuazione del nome dei Domina è assicurata. Pà, instancabile lettore, scopre che Domina vuol dire Signore e Padrone; avrà un motivo in più per essere orgoglioso del suo piccolo Signor Domina. Neanche avessimo avuto castelli con ponti levatoi da difendere. Ma cosa c’entra, in fondo siamo tutti orgogliosi del nostro cognome, come fosse il più importante. Maria Domina e Mario Domina, i due soggetti più acculturati della famiglia, i più impegnati socialmente, daranno alla società un notevole contributo. Siamo nel 1927, nel corso dell’anno muore la nonna materna, la sua asma è peggiorata e il suo cuore non ha retto al grande dramma della sua vita; il suo uomo, così giusto così generoso, perito in un modo così terribile; penso che nessuno si rassegni ad una tale morte per un proprio caro. Così i nonni materni, morendo ambedue ancora abbastanza giovani, lasciano la mia mamma a venti anni con due bambini piccoli, in uno stato di prostrazione tremenda. Le sorelle della mamma si sposano; zia Maria andrà ad abitare a Muratore, una campagna adiacente alla frazione Calcarelli e non la vedrò quasi mai; ma non perché sia molto lontano da Castellana, anzi diciamo che sarà stata a una mezz’ora a piedi da casa mia, prendendo una scorciatoia, che partiva da via Armando Canalini, si saliva poi verso don Sasà, si passava davanti alla casa di zà Pippina a Cartiddara, che aveva davanti a casa un gelso gigantesco, che faceva una frescura meravigliosa e si andava avanti per una mezzora in una strada sterrata tutta accompagnata da grosse more e bellissime rose canine, in aperta campagna senza trovare più una casa fino da zia Maria e zio Calogero Mascellino. Erano veramente molto ospitali, ti avrebbero dato l’anima e si che in quella casa ci saranno stati almeno otto figli da sfamare; mi proverò a contarli. Il più grande si chiamava Francesco che però veniva chiamato Ciccino; questi ragazzi tutti avevano un’anima bella, erano dotati di una bontà superiore alla nostra, forse perché essendo una famiglia molto numerosa erano abituati a dividere tutto tra loro e veniva fuori da loro uno splendido e commovente altruismo.
Poi c’era Liddu, Rosina, Maria, Ninuzzo; Angelina era quella che ho sempre frequentato di più perché avendo la mia età abbiamo sempre trovato nella vita il modo di vederci, c’èra Pino che anche lui da piccolo molto bravo e rispettoso, ma sfortunato; da ragazzo aveva subito delle violenze ed in seguito aveva cominciato a soffrire di mal caduco, infine alla zia era morta una bambina.
In quei tempi la mortalità infantile era molto alta, si può dire che non ci fosse famiglia che non fosse colpita da almeno una disgrazia di questo tipo. La sorella minore di mamma, zia Angelina sposerà zio Giovanni Domina, fratello di mio padre Francesco e avrò con lei, l’unica zia vicina alla nostra famiglia, un rapporto molto stretto che si protrarrà nel tempo. Il dramma del nonno peserà per sempre nell’esistenza di mia madre, essendo essa la figlia più grande e quindi la più cosciente di questo grande dolore; una morte violenta è una cosa a cui non ci si può rassegnare, che non si può assolutamente accettare; è una cosa troppo dolorosa. Mia madre cerca di esternare il suo dolore, votandosi sempre più alla religione; appena può scappa in chiesa per lenire il suo dolore. In quel periodo gestisce la parrocchia di Castellana, padre Benedetto, una personalità molto forte e con la rigida dottrina di quei tempi, in cui si dice che i russi mangiano i bambini, per rendere bene l’idea di come i cattolici vedono il comunismo. La mamma subisce la forte influenza di padre Benedetto, per esempio sul sesso, egli tuona dal pulpito che la religione considera un peccato mortale godere di esso, senza la procreazione, per riscattare quel piacere che da esso ne viene. Mia madre ha anche lei una personalità ed un carattere molto forte, perciò mi riesce difficile capire come avrà fatto questo prete in gonnella ad influenzarla così a fondo. Mia madre dunque non sarà da meno di sua sorella e si metterà a sfornare figli come fossero panini all’olio, osservando alla lettera la religione, per riscattare dal peccato il piacere che dal sesso le viene dato.
Mimma, Antonietta, Lilly e Maria Teresa
1930, nasce Mimma. 1932, nasce Antonietta molto bruna e molto irrequieta; passano sette anni, siamo nel 1940 ed ecco che nasce Lilly, che sarei io. La guerra infuria e fa tante vittime, vengono richiamati al fronte anche uomini non più giovanissimi. Pà parte con loro per la Libia. I nonni paterni aiutano la mamma nel mandare avanti la famiglia; siamo in cinque figli, ma mia madre trova lo stesso il tempo di andare tutte le mattina alla messa.
Mia sorella Maria ha soltanto 15 anni, ma toccherà a lei, povera cara, l’ingrato compito di accudire noi sorelle più piccole. Fare la babysitter, ha influenzato negativamente mia sorella Maria, nel volersi creare una famiglia sua. Ma la mamma sente un bisogno impellente di andare in chiesa tutti i santi giorni; è un richiamo più forte di lei a cui non sa resistere e poi adesso più che mai perché mio padre è in guerra e perciò deve assolutamente pregare, affinché ritorni da noi. Come è buffa la vita, se tu analizzi attentamente, è un ripetersi delle stesse situazioni, parlando adesso di mio padre che è partito per la guerra, mi sembra, paradossalmente, di ripetere le stesse gesta in cui si trovò a suo tempo mio nonno e ancora si era ritrovato mio padre da giovane, quando era andato militare la prima volta; punto e a capo. Sembra in fondo che la vita sia questa, cambiano i personaggi ma la teatralità della vita è sempre la solita; poche gioie, tanti drammi, tante storie piene di dolore, che sono la vita stessa. Il fascismo infuria selvaggiamente ed anche se Castellana è lontana dal fronte, arrivano notizie atroci sulle persecuzioni degli ebrei in tutta la nazione ed anche all’estero; la mamma chiusa nella sua fede non può fare altro che fare delle novene e pregare disperatamente per la salvezza degli ebrei. Siamo nel settembre del 1940, io ho solo qualche mese di vita, la famigliola è riunita a San Giorgio nella piccola casa di campagna per il raccolto estivo, mietitura e pisari, quando scoppia una perniciosa epidemia di difterite; in tutta Italia ci sono delle vittime, non c’è ancora la penicillina e non si sa come curare la malattia, si ammalano tutte e tre le mie sorelle, ma la più grave è Mimma. La portano a Castellana per curarla meglio, ma tutti i consulti risultano inutili. Una sera che con mia madre c’è zia Angelina e la bambina sembra migliorare, mia madre esorta zia Angelina ad andare a casa sua a riposarsi, rimane così sola con la sua bambina. Pà è in campagna con il resto della famigliola ammalata. E’ l’una di notte, l’orologio della chiesa ha appena finito di suonare gli ultimi rintocchi di “Cicco e Nino”, quando il respiro della sorellina si fa convulso e la piccola spira tra le braccia della mamma, affranta dal dolore. Il sistema nervoso della mamma, già provato per il dramma del nonno perito in una maniera così tragica, crolla; le altre mie due sorelle prese anch’esse dalla difterite, anche se in maniera più lieve, guariscono, ma per la mia sorellina Mimma non c’è nulla da fare; una dolcissima bambina di dieci anni, molto sensibile, quasi una donna, ella rimarrà sempre con noi; riguarderemo la sua cartella, i suoi quaderni pieni di bei voti e vedremo per sempre negli occhi dei nostri cari vecchi genitori, la commozione per lei, la nostra cara piccola Mimma. Io, Lilly, di pochi mesi, mi si dà a balia ad una zia di mia madre signorina che si chiamava a zà Gannorfa ed abitava nella strada adiacente alla nostra, non ricordo come si chiamasse la strada, ma la chiamavano la Strata Vecchia che sfociava anche quella sulla piazza della chiesa.
Verrò allattata con l’alimento Mellin. La zia della mamma mi accudirà con grande amore, per un lungo periodo che la mamma sarà come in trance. La ricordo ancora, una persona dolcissima molto alta, portava delle gonne molto lunghe fino ai piedi, un grosso chignon intrecciato sulla nuca e due grossi cerchi d’oro alle orecchie; viveva da sola e si manteneva confezionando calze per tutta Castellana; penso proprio di non sbagliare supponendo che fosse la prima forma di industria nel paese. A zà Gannorfa aveva delle lunghe mani e quando da grandicella andavo a trovarla, mi accarezzava con affetto e mi riempiva di piccoli regali; penso che vedesse in me, una sua mancata maternità, perché i suoi occhi si velavano sempre di lacrime. Siamo nel 1941, Pà viene a casa in licenza dalla Libia e racconta di soldati che fanno la fame, tanto da andare a raccattare le bucce di patate che le famiglie buttano via. Mia madre è sempre chiusa nel suo dolore per Mimma, Pà prova a farle fare un altro figlio, dietro consiglio del dottore, che possa scuoterla dal suo dolore.
1942 nasce Maria Teresa, tanti riccioli biondi che riportano un po’ di gioia nel cuore della mamma. Io e Teresa bisticceremo sempre, all’infinito; ci sono solo due anni di differenza, ma lei mi darà del filo da torcere; io sono più ruffiana, cerco di accaparrarmi l’affetto di tutti e così facendo forse la faccio innervosire.
Lei diventerà molto buona e più altruista di me. Il babbo ritorna a casa prima della fine della guerra, forse per la nascita di Maria Teresa. La famiglia si ricompone e la mamma sembra trovare un po’ di serenità, ma la fissazione della fede si fa sempre più intensa e più prepotente; un’altra al suo posto avrebbe reagito diversamente, avrebbe buttato via messe e messali, ma lei non contraddiceva il suo Dio, lei diceva che la sua bambina era un angelo e poiché gli angeli non sono di questa terra, Dio l’aveva chiamata a sé.
Ella sogna quasi tutte le notti la sua bambina morta. Avrà raccontato centinaia di sogni di lei, ma uno rimane nitido nella mia mente, come se lo avessi vissuto. La mamma sogna di vederla in paradiso con le ali insieme a tanti altri angioletti che fanno un giro tondo, in mezzo a tanti fiori meravigliosi, la mamma si fa avanti, la piccola si stacca dal girotondo e le salta in braccio, la stringe forte, la bacia, l’accarezza e poi le dice: “Mamma tu non devi più piangere per me, perché io sono felice, ma tutte le volte che piangerai, io non potrò giocare ed essere felice”.
In quel momento il sogno finì, la mamma si svegliò, ma per lei quella sequenza rimase indelebile nella mente, perché in seguito non vidi più mia madre piangere frequentemente o almeno quando accennava a farlo, si riprendeva rapidamente. Per lei quel paradiso faceva parte integrante della sua fede; leggeva molti libri di santi, di cose sacre, frequentava assiduamente l’Azione Cattolica di Castellana; ricordo bene alcuni nomi di persone che ne facevano parte: Maria Russo, Brucato Gandolfina, Maria e Angelina Libbrizzi e tanti altri cari volti. In quella sua spiritualità riusciva ad affogare tutti i dolori dei drammi vissuti. Non ho mai visto nessuno pregare come mia madre, era come rapita dal suo Dio.
Quando si inginocchiava sembrava una fanatica; non ho mai visto pregare un prete con lo stesso fervore, chiudendo gli occhi lei si estraniava da tutto ciò che la circondava e sembrava davvero comunicare con il suo Dio. Immersa com’era in Lui non distingueva più niente, non riusciva più ad essere obbiettiva nel giudicare le cose, vedeva miracoli dappertutto. Una mattina la mamma si mise di buona lena a stirare, con una famiglia numerosa quali eravamo, non mancava mai da lavare stirare e rammendare, perché una volta non si buttava via nulla, si rammendava tutto. Quindi la mamma accese il ferro che era fatto proprio di ferro, si riempiva di carbone e vi si soffiava dentro attraverso una fila di buchi tutto intorno per alimentare la fiamma che così scaldava la piastra e stirava meglio. La piccola Maria Teresa di cinque o sei anni le gironzolava intorno; appena la mamma si mette ancora una volta a soffiare dentro al ferro per ridargli la carica, Teresa in quell’attimo le corre incontro ed ecco che una fiammella rovente le va dentro l’occhio. In ospedale dicono che la particella rovente si sia posata proprio sulla pupilla e quindi pare che la vista sia compromessa; durante la notte la bimba è molto inquieta, ma la mamma prega fiduciosa, con tutto il suo impeto, Santa Lucia perché dia la vista a mia sorella. Al mattino il dottore levando la benda a Maria Teresa constata con stupore che la pupilla è ritornata normale; si grida al miracolo! Mamma farà confezionare a Maria Teresa il Saio di Santa Lucia, che consiste in una tunichetta verde con un cordoncino bianco in vita e glielo farà indossare per un anno consecutivo. Mia sorella Maria, la primogenita è cresciuta oberata dalla numerosa famiglia, dove c’è un gran da fare; deve accudire le piccole, che vuol dire cominciare con il bagno mattutino e seguirci tutto il santo giorno, senza contare lavare, stirare, mondare il grano per andare al mulino, fare il pane e i dolci per le piccole, pulire la casa tenere il pollaio etc. Maria è molto timida, avrebbe già l’età per andare a ballare, conoscere dei giovanotti, ma non ne vuol sapere, è molto introversa; mia madre approfitta di questa sua chiusura per mandarla in chiesa da padre Benedetto, che completa l’opera con il suo lavaggio del cervello sui peccati mortali e sui vizi capitali. Padre Benedetto era bello grasso, quindi penso proprio, che egli facesse uso di almeno uno di questi vizi capitali. Subito dopo la guerra nessuno navigava nell’oro e quei poveri braccianti, mangiavano cicoria selvatica raccolta nei campi, pane e olive, pane e cipolle, fave lesse, lenticchie; tutti prodotti che sfornava la terra; non c’èrano i soldi per comprare neanche un etto di mortadella, ma se passavi davanti alla canonica di padre Benedetto, sentivi immancabilmente profumo di costate alla brace. La figura del prete nel sud a quei tempi, era molto importante e padre Benedetto era conscio della sua influenza sui suoi parrocchiani che adoperava con successo, in special modo con le donne, condizionandole con tabù e peccati mortali.
1946
Siamo nel 1946, il mio primo anno di età scolare; è pressappoco da lì che partono i miei primi ricordi di Castellana, questo luogo in cui sono nata e prima di me tutti i miei avi; questi luoghi che rimarranno a me cari per tutta la vita e ci ritornerò sempre di notte, nei mille e mille sogni a fare scorribande per il paese, come facevo da piccola, da un capo all’altro del paese, saltellando ora su un piede ora sull’altro. Castellana è situata alle falde delle Madonie, a circa 800 metri sul livello del mare; d’estate viene qualche villeggiante, solo per trovare refrigerio da Palermo che è molto calda; in special modo quando soffia vento di Scirocco, ma non c’è alcuna attrattiva per divertirsi a parte un rudimentale cinema all’aperto.
Ci sono quattro o cinque negozi di alimentari che vendono di tutto un po’, un paio di negozi di stoffa e non mancano le sarte per confezionare i vestiti ai castellanesi. Le ragazze, finita la quinta elementare (a parte uno sparuto numero di essi che ha le finanze per farlo e vanno a Petralia Sottana a fare le medie), vanno dalla sarta ad imparare come si fa a confezionarsi un vestito da sola; i genitori poi magari faranno un debito per comprargli una Necchi o una Singer e loro povere ragazze per tutta la vita avranno da smacchinare vestiti per grandi e piccoli, aiutando così l’economia della loro famiglia. Non ci sono ancora negozi di scarpe; ci sono invece una miriade di artigiani che confeziona le scarpe su misura; alcuni di loro sono molto bravi, dei veri artisti, ma alcuni fanno delle scarpe molto brutte e quel che più conta, ti rovinano i piedi inesorabilmente. Andavo sovente da un calzolaio che si chiamava mastro Pietro Li Puma, perché sua figlia era una mia compagna di scuola. Mastro Pietro è molto buffo, mi guarda da sotto le sue spesse lenti e ridacchia, mentre si arrotola lo spago nelle sue mani tutte sporche di mastice e lo tira con maestria a destra e a sinistra. Lui fa le cose più importanti e poi passa le scarpe ai ragazzi di bottega, che sono lì per imparare il mestiere e le rifiniscono; le scarpe che più mi eccitavano erano quelle di pelle rossa e quelle di vernice nere.
Intorno c’è un grande caos: rotoli di pelle, decine di pentolini con vernici, colle e un odore forte da non resistere, ma io sto lì a bocca aperta ad assistere ai lavori, finche la mamma non mi chiama a gran voce. Nelle sere d’inverno quando Pà era a casa dalla campagna di San Giorgio, gli piaceva molto andare alla camera del lavoro; era un comunista sfegatato e seguiva congressi e dibattiti politici che per lo più si tenevano al sabato sera, quando i coloni erano tutti in paese. Come è buffa la mia famiglia così unita negli affetti e così disunita negli ideali politici. La mamma è un’assidua frequentatrice dell’Azione Cattolica, Pà è invece attivista convinto comunista e si butta nel tesseramento o in qualunque cosa riguardi la lotta del P.C.I. Se però una sera io vado a prendere il mio plaid a quadri bianco e nocciola e gli sbarro la porta, lui si intenerisce e rinuncia per quella sera, anche se di malavoglia, ad andare alla Camera del Lavoro; mi prende in braccio e mi mette sulle sue ginocchia, mi prende le manine gelate e me le mette sotto le sue ascelle, io appoggio la testa sul suo petto e lui mi copre con il mio plaid preferito; sento il suo odore inconfondibile di pulito e di sapone da barba. Siamo tutti riuniti intorno alla conca di rame gialla, dove scoppietta la brace con dentro delle bucce di arance che la mamma mette per attenuare l’odore forte del carbone. Pà legge ad alta voce dei fascicoli sul marxismo e si infervora dandosi un tono importante da arringatore; io non capisco un tubo, ma sono felice di aver conquistato Pà per quella sera e mi addormento felice, tra le sue forti braccia. Mio fratello Mariano è ormai un giovanotto, ha diciotto anni ed è un bel ragazzo, occhi nerissimi, capelli e baffoni neri, un sorriso accattivante; è l’unico a somigliare a mia madre che ha dei lineamenti perfetti. Mariano ha molto successo con le ragazze, che gli corrono dietro; è un ragazzo molto intelligente e comincia a militare con Pà nelle file comuniste, ma quando la mamma si accorge che fa sul serio, perché vuole andare alla scuola di partito, fa fuoco e fiamme perché egli non venga coinvolto; influenzata com’è da padre Benedetto, si oppone categoricamente ai progetti del ragazzo e riesce almeno in un primo momento, a farlo desistere.
Mio fratello è una testa lesta, così dice nonno Mariano di lui, sarebbe una bella cosa farlo continuare a studiare; i miei genitori sarebbero felici con una testa come la sua, se arrivasse alla laurea. Bisogna trasferirsi in città, affittare una appartamento, come si fa in questi casi, ma mancano i mezzi. Possediamo case e terreni, ma il reddito che ci da la terra che Pà lavora come un mago dall’alba al tramonto non è sufficiente, la famiglia non riesce a fare quel salto di qualità che Pà sogna per tutti noi. Prende in affitto degli altri terreni che dicono fertili, cerca di fare delle innovazioni, ma l’agricoltura dalle nostre parti è dura e piena di incognite; se va male il grano che arriva solo una volta l’anno, sono cavoli nostri, perché fino al prossimo anno non ci si può rifare. L’unica nota positiva e che Pà è un’entusiasta, non si avvilisce mai; si ammazza di lavoro dalla mattina alla sera, ed è sempre felice allegro e speranzoso che verranno tempi migliori. In casa fa di tutto per non far mancare nulla a noi bambine. Non mancano mai generi alimentari, benché di supermercati non c’è ancora neanche l’ombra. Il babbo, nella campagna di San Giorgio, tiene tanti animali; qualche maiale lo vende per racimolare qualche soldo e qualcuno lo macella e ci procura insaccati per tutto l’anno; tiene due caprette per avere il latte fresco per noi bambine, polli, anatre, conigli. In una grossa dispensa ci sono grosse forme di formaggio e ricotta salata che i pastori ci danno in cambio della ristuccia da pascolare, dopo il raccolto del grano. La mamma e mia sorella Maria sono sempre indaffarate a fare delle buone marmellate di mele cotogne, di fichi, di pere, di amarene per l’inverno, che raccogliamo nella nostra vigna, che si trova alle porte del paese in zona Iocca e nell’altra vigna di nonna Maria in zona Purtuni. Al sabato quando fanno il pane, mia madre e le mie sorelle, perché nel frattempo è cresciuta anche Antonietta, fanno a gara a chi fa i dolci più buoni; fanno i cucciddati, fatti con un ripieno di fichi secchi che a dire il vero a me non piacevano troppo; mi facevano invece impazzire i pasticciotti fatti con un ripieno di ricotta, mandorle e quel delicato sapore di cannella che ti tirava su anche l’anima; il pan di Spagna che per quanto da grande io sia diventata un’appassionata in fatto di dolci, non ce la farò mai ad avvicinarmi a quello di mamma che era una specialità; faceva bene anche le taralle, i tarallucci a forma di animaletti con le formine che deliziavano noi piccoline, soltanto per i disegni; i deliziosi amaretti, fatti con le mandorle della nostra vigna di Iocca; i masticuttì fatti con il mosto cotto, ed ora basta, perché mi sta venendo un’acquolina in bocca che non saprei come colmare dato che mi trovo a chilometri e chilometri dalla mia Sicilia. A volte, compro i cannoli e la cassata che però vengono confezionati quà e vi assicuro che non è la stessa cosa.
Ma i soldi non esistono in casa nostra e quando, una volta la settimana, passa per le strade di Castellana il tipico carretto siciliano con le pareti dipinte in allegri colori, delle gesta famose dell’Orlando Furioso e di altri eroi siciliani, che arriva da Bagheria, la mamma farà cambio di merce: darà al carrettiere un tumulo di grano di fave di lenticchie o di ceci e il carrettiere gli darà in cambio un fustino di sapone sciolto che pareva marmellata di albicocche, una lattina di sarde salate di almeno 5 chili, un lemmi di terracotta marmorizzato verde e bianco per lavarci dentro i piatti, una lancedda di creta per andare ad attingere l’acqua alla fontana pubblica, dove andavano tutti e dove bisognava stare in coda per delle mezz’ore filate, perché l’acqua veniva giù filo filo; una cosa veramente snervante. Ma ritorniamo a mio fratello Mario, diminutivo di Mariano; egli è molto intelligente, non può continuare gli studi ma la mamma non vuol saperne di mandarlo alla scuola di partito, benché questa gli venga pagata interamente dal partito. Vendono quindi un piccolo appezzamento di terreno in località Serre Russe e gli comprano un camioncino per fargli fare il commerciante; risultato: un fallimento completo. Mario non aveva la stoffa del commerciante, idealista com’era avrebbe potuto vendere meglio degli ideali e così l’anno dopo Mario si trova a Roma alle Frattocchie, alla scuola di partito, anche contro la volontà di mia madre, ma soprattutto di padre Benedetto che imbizzarrito come un toro annunciava venti di scomunica. Mario che aveva una predisposizione per la disquisizione e avrebbe, senza ombra di dubbio, potuto fare l’avvocato, viene fuori dalla scuola un attivista coi fiocchi. Quando viene a Castellana e si affaccia al balcone della camera del lavoro, che si trova proprio in piazza davanti alla chiesa, a fare la campagna elettorale per il primo comizio, la piazza è piena e tutti battono le mani guardando ironicamente il balcone deserto di padre Benedetto. Non posso fare a meno di pensare che Don Camillo ci sarebbe stato se non altro a fare il contraddittorio. Mario, tra un comizio e l’altro, s’innamora di una bella biondina di Castellana; si chiama Santina Muzzo e abita proprio nel corso davanti all’ufficio postale. I ragazzi fanno la fuitina che verso il 1950 è quasi la norma; lo si fa anche per risparmiare sulla cerimonia, perché in Sicilia nulla cambia mai e questo benedetto progresso non ci ha mai gratificato.
In secondo tempo non ripareranno in chiesa, come si usa di solito fare, ma si sposeranno in comune; la cosa essendo la prima volta che succede a Castellana, suscita un grande scalpore tra la gente che lo trova scandaloso, ma soprattutto suscita l’ira di padre Benedetto, che continua a scomunicare a destra e a manca, preso com’è dalla sua arrogante autorità religiosa. In casa mia ormai, eccetto mia madre, sono tutti scomunicati; Pà è scomunicato da sempre perché non è mai entrato in chiesa e frequenta la Camera del Lavoro che è per il prete, la casa del diavolo; Mario lavora per il partito, come dice lui, portando anime al diavolo e avendo l’impudenza di dare il via a matrimoni senza Cristo. Mia sorella Maria, anche lei dopo tanto tempo, abbandona il suo posto di catechista in chiesa per seguire le orme di Mario. Tra Maria e Mariano c’è un rapporto molto profondo, parlano molto tra di loro di politica e di lotte sociali. Maria si rende conto che si trova molto più vicina al mondo di Mario che a quello di padre Benedetto, capisce che la Sicilia non ha bisogno solo di figli che pregano per lei, ma anche che lottino per lei.
Maria parte anche lei per la scuola di partito a Como; là conoscerà Giuseppina Zacco, una compagna a cui resterà legata per tutta la vita, che poi diventerà la moglie di Pio La Torre, il senatore del partito comunista, che insieme al senatore Rognoni, ha fatto quella buona legge che ha espropriato miliardi alla mafia.
Maria va a lavorare a Palermo in Federazione e di conseguenza si ferma anche ad abitare a Palermo, ma viene molto spesso a Castellana; c’è molto lavoro da fare, tiene delle conferenze, parla ai compagni, li incita a lottare, fa un lavoro capillare, tiene delle riunioni di caseggiato, cioè va casa per casa a parlare, per stimolare le donne ad uscire dalle loro tane, a prendere coraggio e lottare per i loro diritti. Dice loro che se rimarranno tappate in casa ad aspettare, nessuno verrà a rivendicare i loro diritti sacrosanti, a cominciare dal lavoro per i loro mariti, che significava poi il pane per i loro figli. Ora che Maria è andata a lavorare, tocca ad Antonietta sobbarcarsi tutta la mole di lavoro che faceva lei. Antonietta si è fatta una bella bruna, con una bella cascata di capelli ondulati che le piovono sulle spalle; i giovanotti la tallonano ed io non capisco ancora perché, ma mia madre che capisce perfettamente non le dà tregua, le trova sempre dei lavori da fare per non mandarla fuori; sono ancora tempi duri per le ragazze, soprattutto se hanno una madre severa come la nostra. Antonietta deve stare attenta a me e Teresa che siamo veramente pestifere e appena può deve andare a san Giorgio con Pà ad aiutare in campagna per risparmiare sui braccianti, perché i soldi in casa nostra non bastano mai. La scomunica toccherà anche Antonietta perché appena può anche lei darà una mano alla Camera del Lavoro o per il tesseramento o per distribuire il giornale Noi donne, Vie nuove o L’unità. La scomunica pioverà anche su Lilly e Teresa perché non ci darà la cresima se gli adulti della famiglia non strapperanno la tessera del partito comunista. Ricordo che io e Teresa ci sentimmo discriminate, il che ci diede una grande tristezza. Le stagioni si susseguono; ricordo con nostalgia le lunghe primavere che venivano a Castellana, nei dintorni tanti mandorli in fiore, un meraviglioso spettacolo, allontanandosi dal paese distese di campi di grano punteggiato da una miriade di papaveri rossi. Quando agita leggermente il vento sembra un ondeggiante mare colore oro, con centinaia di farfalline variopinte che vi intrecciano sopra un ballo infinito. Mia madre va avanti, senza dubbi nella sua fede gigantesca; a distanza di decenni lei parla sempre di suo padre con quel dolore vivo che l’ha segnata per sempre, come fosse successo ieri. Il dolore rimane vivo anche per la sua bambina morta e la sogna tutte le notti senza darsi mai pace. La sua vita è un intreccio di preghiere per i morti e per i vivi che secondo lei vivono perennemente in peccato mortale. Il suo fisico si è un po’ appesantito, nel suo viso vi è la dolcezza di tutte le madri, per lasciar posto al momento opportuno, al cipiglio severo, che è indispensabile per guidare i suoi ragazzi nella strada giusta. Dotata di quella forte personalità che non lascia posto a dubbi o incertezze, domina mio padre e la sua dolcezza di carattere, ma gli vuole bene, lo rispetta e ci insegna a sua volta a rispettarlo. La temo, sento che se potessi vorrei sconfiggere la sua forza, ma nello stesso tempo l’ammiro molto, percepisco che moralmente è lei a mandare avanti la baracca. Pà è troppo debole di carattere, si fa vincere da noi figli, quindi il polso fermo di lei è indispensabile per la famiglia. La amo e la odio per quella sua forza irremovibile che sprigiona al momento opportuno; in certi momenti la vorrei più leggera, più disponibile.
Invidio certe mamme moderne, disponibili alla risata, civettuole, con i capelli tagliati corti alla moda pronte a fare qualche sano e tipico curtigghio di paese; ma lei giudica severamente il pettegolezzo e lo considera un peccato mortale; quando lei si sposta, lo fa soltanto per andare in chiesa dal suo Cristo; nel mese di maggio al pomeriggio vi sono gli omaggi a Maria e lei non se ne perde uno.
Il mese Mariano penso che per lei sia una cosa sacra, ma anche una cosa terrena, come il compleanno della propria madre naturale. Quando torna dalla funzione religiosa è serena e rilassata, si toglie il lungo velo di pizzo nero che le dona e me la fa sembrare ancora più bella, bacia il messale, nel riporlo come fa il prete alla fine della messa e lo fa con arcana religiosità. La vedo come una suora che viene distolta dalla sua vocazione dalla famiglia. Se va a trovare un’amica di famiglia, lo fa solo in occasione della morte di un congiunto. Si mette a impastare le taralle e quando queste sono pronte, mette su la grossa caffettiera di smalto azzurro che fa un lungo caffè all’americana, trasferisce il tutto dentro un grosso paniere di vimini, ricoperto della solita tovaglia buona in lino, che lei stessa ha tessuto al telaio e va a fare la samaritana; a parte il fatto che è una brava persona sotto sotto indovino il suo intento segreto per tutte le buone azioni che fa di meritarsi il Paradiso, come ripete a noi figli fino alla noia. Vedere sorridere mia madre è un avvenimento, lei è tutta di un pezzo, ripete sempre che il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi, ma quando succede, io la guardo estasiata; il suo viso prende quella dolce espressione fanciullesca, le sue belle labbra carnose lasciano scoperti una fila di denti bianchi perfetti.
Le sue depressioni si fanno sempre più frequenti, ma non c’è modo di smuoverla dal suo mondo di preghiere; quando lei prega è come in trance, ho la netta sensazione che lì vicino a me non c’è una donna che prega, la sua anima e la sua mente volano su nel cielo tra i suoi morti, tra le sue care vite passate.
La scuola
Le cinque aule della mia scuola elementare sono ricavate da un modesto appartamento del corso Mazzini. Non c’è giardino, non ci sono aiuole per poter giocare, ma non è il verde che manca a Castellana. La dolce insegnante Maria Libbrizzi, che per sempre rimarrà impressa nel mio cuore, nella bella stagione ci porta alla Casetta; a un paio di chilometri dalla scuola, lato Petralia, c’è appunto un piccolo rudere, che noi chiamiamo la casetta, tutta attorniata da un’erba selvatica chiamata menta citronella, che ha un profumo molto buono; a volte ci facciamo ricreazione, specie in primavera, quando vi sono i mandorli in fiore. Nell’aula di prima classe c’è una parete di compensato che divide l’aula dall’ingresso, tutto tappezzato di cartelloni dell’A B C. Sotto un bel pino verde troneggiano grosse P stampatello, le grosse B accompagnano il nostro tricolore e tutta una serie di C in corsivo, incorniciano una piccola casetta con il tetto rosso e un meraviglioso prato verde. Quando per la prima volta prendo in mano i pastelli Giotto mi sento una protagonista, libera dalle grinfie della mamma. Ho una fortuna sfacciata; di cinque terribili maestre che adoperano tanto di frustino per fustigare i ragazzi più indomabili, mi va a toccare una maestra che è quanto di meglio si possa desiderare: dolce quanto basta, concreta nel suo lavoro ed io apprendo a meraviglia. La scuola mi sembra un gioco meraviglioso. Va avanti così per un po’, ma quando in terza elementare, la maestra dice: “Bambine, prendete il quaderno di matematica, facciamo le divisioni!”, per me comincia il dramma; mi faccio venire attacchi di dissenteria acuta. Mi piace tutto: la storia che mi fa conoscere innumerevoli personaggi, come Muzio Scevola, che per il suo atto di coraggio eroico, sbalordisce la mia fantasia; la storia, che mi fa navigare insieme a Colombo sulla Nina, la Pinta e la Santa Maria; ma le cose che più mi affascinano, sono i temi che danno largo spazio alla mia creatività; le poesie del Pascoli leggere e delicate come farfalle. Ce n’é una che rimarrà per sempre impressa nel mio cuore di bambina, forse per la sua triste argomentazione: “La Cavallina Storna”. Tutte le volte che il mio pensiero la sfiora, mi commuove. In quel calesse che ritorna a casa con il padre morto io ci vedo il mio papà e tutto questo mi sconvolge e mi fa stare male.
Ma le divisioni no, quelle sono il mio spauracchio, non riesco proprio a capirle. Eppure la matematica mi piace: mi piace addizionare, moltiplicare, sottrarre, ma dividere no, forse perché comincio ad essere un egoista e non voglio dividere niente con nessuno.
La classe è molto numerosa e benché la mia cara insegnante è molto brava, non riesce a seguirci tutti. Tre volte la settimana ci legge il libro di Pinocchio; quando apre il grosso libro è tutto un grido di gioia, la scolaresca è attenta e non si sente volare una mosca.
Lei scandisce piano quella favola incantata; non c’è ancora la televisione e quella favola letta in maniera esemplare è l’unica cosa che ci fa sognare ad occhi aperti e ci fa viaggiare sulle ali della fantasia. Lei è per noi la fata turchina che ci regala gioia e felicità.
Quando finisce di leggere, la scolaresca invade la cattedra e tutti fanno a gara per dare dei baci alla maestra, quando sopra non c’è più posto per abbracciarla, alcuni di noi vanno addirittura sotto la cattedra per fare le fusa contro le sue gambe. Al mattino facciamo a gara nel portarle grossi mazzi di violacciocche, di gigli, di fiori di campo e lei ci accoglie sempre con affetto. La maestra Libbrizzi è molto cattolica, praticante come la mia mamma, fa la comunione tutte le mattine prima di venire a scuola; i miei fratelli che essendo sindacalisti di sinistra non vedono di buon occhio la cosa, mi prendono bonariamente in giro; vedendo che io le sono attaccata in modo esagerato, mi dicono che se vincono i comunisti rapiscono la mia cara maestra e la spediscono in Russia. Io gli credo e piango e mi dispero per lei, finché la mamma non interviene tranquillizzandomi, che si tratta soltanto di uno scherzo feroce. Un ricordo indelebile è l’appello che la mattina l’insegnante fa all’inizio della lezione: Abate Maria, Li Puma Giuseppina, San Fratello Ida e Giuseppina, Fregapane Margherita, Randazzo Illuminata, Curcio Calogera, Lio Calogera, Marzullo Lilla. Sono passati almeno dieci lustri, forse il ricordo così indelebile non è più, perché rivedo i loro cari e gioiosi visi, ma mi vengono meno i loro nomi. Ah ecco un altro caro nome: Asciutto Michelina. Michelina è la mia più cara e dolce amichetta. Vado spesso a casa sua a giocare; c’è un forte odore di acetone, di colla e di pelle nuova, perché suo papà fa il calzolaio e anche lui mi piace molto. è un uomo molto gentile.
Poi ha un fratellino biondo molto carino che è più piccolo di noi due e si chiama Liborio; infine c’è la sua mamma che è molto magra e alta e si chiama Teresa; anche la signora Teresa è molto gentile, ci fa delle buone merende con ottima marmellata fatta da lei. Io e Michelina ci infiliamo in un minuscolo terrazzino al primo piano che da sui tetti e giochiamo alle mamme per ore, senza vere bambole. Con un largo fazzoletto quadrato che pieghiamo prima a punta e poi arrotoliamo dalle parti fino al centro e ne ritiriamo le punte una in alto e una in basso a mo’ di culla e ne ricaviamo due gemelline; questi sono i nostri giocattoli; parliamo senza sosta, giochiamo alle comari imitando i grandi e confidandoci le pene per le nostre gemelline. C’è fra tutte noi, che sembriamo delle ochette, un piccolo genio che si chiama Lilla e che ho già menzionato nei nomi che ancora ricordo. Lilla è una bella brunetta dalla pelle olivastra, ha i capelli lisci come piacciono tanto a me e porta delle lunghe trecce che io adoro e non potrò mai portare, dato che i miei terribili riccioli si intrigano e non vengono mai lunghi.
Lilla ha due occhi intelligenti, un bel viso interessante e volitivo; è una bambina molto determinata che sa sempre tutto e non le costa fatica fare nulla; per lei le divisioni sono un vero divertimento, tanto che le propone alla maestra anche come fuori programma.
Ho molta ammirazione per lei, ma in quel momento la odio.
La nostra classe è una piccola democrazia, una volta al mese facciamo le votazioni per eleggere la capoclasse, ed invariabilmente, viene eletta Lilla a furore di popolo; a tutte le altre alunne può toccare al massimo il ruolo di tenere bene la classe, o il compito di tenere sempre i fiori freschi al crocifisso appeso alla parete e all’immagine della madonnina che la maestra Libbrizzi ha portato dal suo pellegrinaggio a Lourdes; da lì ha portato anche tutti i santini di Bernardette. Rimaniamo tutte strabiliate dei racconti di Lourdes; alla notte io sogno tutte queste cose e mi sembra quasi di averle vissute.
La casa di campagna
Tutti gli anni alla fine di maggio, quando si chiudono le scuole, la mia famiglia si trasferisce in campagna, ma si tratta tutt’altro che di villeggiatura. E’ il periodo del raccolto estivo, c’è quindi bisogno di tante braccia e tutta la famiglia deve collaborare. La casa di campagna è molto piccola, si tratta di una costruzione rustica, di un monolocale diviso a metà da una paratia di canne, fatta da mio padre alla meno peggio, dato che come artigiano non vale un granché.
Da una parte funge da camera da letto e dall’altra parte funge da cucina con un camino nero nero, perché viene alimentato con la paglia e fa un fumo incredibile. La prima volta che mi ci portano, piango disperata perché non voglio starci; voglio andare nella mia casa di Castellana perché qui a san Giorgio non c’è neppure la luce elettrica; la mamma fa luce con un lume a petrolio che da alla gola e quando rimane senza petrolio, mette un po’ di olio da cucina dentro un cucchiaio, ci mette u mieccu, che sarebbe un pezzetto di straccio ritorto è fa luce con quello; quella luce così fioca, che durava giusto il tempo di cenare e poi bisognava andare a dormire anche perché erano tutti stanchi morti. Non riesco ad abituarmi a quel modo triste e faticoso di vivere e al sabato faccio le fusa con Pà perché mi porti al paese, perché c’è la partita di pallone, ma lui sorride alle mie stramberie; sappiamo tutti benissimo, che lì siamo come ai lavori forzati e finché non si è finito il raccolto al paese non si torna. Tutto è strettamente legato al bollettino meteorologico ed anche se non c’è nessuna televisione che lo prevede, gli occhi dei contadini sono rivolti sempre al cielo, guai se dovesse piovere quando siamo a pisari, cioè a trebbiare, si perderebbe tutto il raccolto di un anno, altro che andare al paese a vedere la partita di calcio.
Nella casa di campagna c’è solo una piccola finestrella con una inferriata e la zanzariera sopra, perché così in aperta campagna non entrino in casa ospiti indesiderati come verdi serpenti, da cui ero atterrita. San Giorgio, che geograficamente sembra un pezzo di Sahara, con qualche duna quà e là, è tutta una vallata di piccoli proprietari, come noi, ed ogni sito ha una sua casetta, grosso modo come la nostra, giusto buona per sopravviverci nel periodo del raccolto estivo. La vallata è dominata da un monte a strapiombo che a me piccina sembrava altissimo, che si chiama San Giuliano.
Sotto al monte si trova una fresca radura di verde boschetto dove attingiamo un’acqua freschissima, che io chiamo l’Oasi.
A destra della nostra proprietà confiniamo con un grosso feudatario che ha un feudo almeno cento volte più grosso del nostro, avrà cento affittuari che lavorano le sue terre; ognuno ha il suo pezzo di terra in affitto e alla fine del raccolto deve dare al barone il sessanta per cento di quello che ha ricavato. Solo che da quando ha pagato le sementi, i concimi chimici, l’aiuto di qualche bracciante e la grande fatica di tutto un anno di lavoro, non gli rimane un bel nulla.
Vedi da una parte le loro catapecchie e dall’altra parte l’opulenza del Barone, la sfarzosità della villa con i parafulmini seminascosti dal grosso parco di verdi alberi, dove sovente si danno dei ricevimenti in grande stile e gli invitati arrivano elegantissimi con delle lunghe auto fuori serie. Fanno baldoria tutta la notte e vanno a dormire la mattina quando i viddani sono già all’antu a lavorare e sudare come bestie da soma. A tenere a bada tutti questi contadini c’è tutta una nomenclatura che va dal campiere che è un capo, che con il cavallo batte tutti i campi controllando il lavoro degli affittuari e badando che nessuno trafughi neanche un filo di paglia, al soprastante che ha un ruolo più importante. Ha di solito un bel cavallo con una sontuosa sella; il soprastante ha un’aria pomposa e si da delle arie da gran signore; cura le relazioni tra il contadino e il feudatario e quasi sempre ruba all’uno e all’altro. In questo contesto, tra il ricchissimo barone e i poveri affittuari a cui non rimane quasi nulla in tasca, noi piccoli proprietari ci collochiamo in mezzo; soldi non se ne vede mai, ma quantomeno Pà si gestisce da solo, non c’è nessun campiere o soprastante che viene a fare dell’arroganza, con il suo frustino in mano. Dall’alba al tramonto, povero Pà non si ferma un attimo: ora a destra ora a sinistra, si comincia a maggio a scippare fave, lenticchie, ceci, poi di giugno arriva la mietitura del grano. Distese chilometriche di messi dorate, che sembra un mare giallo con milioni di papaveri rossi a completare quel meraviglioso quadro, che madre natura si è divertita a dipingere e che viene fatto tutto a mano, con la sola falce, perché ancora negli anni cinquanta non si vedono né falciatrice né trebbiatrice e se magari fanno capolino nei grandi feudi, i contadini non le vedono di buon occhio.
Gli piacerebbe e come, risparmiarsi un po’ di faticaccia, con quel terribile caldo che li fa sudare come bestie, ma questo vuol dire aumentare le spese che già sono molte. Si comincia in autunno con i muli attaccati all’aratro a dissodare le durissime zolle, poi si deve fresare e fare i solchi, a novembre arriva la semina, che quasi un rito e bisogna affidare il prezioso grano alle zolle fertilizzate e sperare che il terreno sia magnanimo. Ma non dipende solo dalla terra, tutte queste centinaia di operazioni sono strettamente legate con il cielo; dovrà piovere quando il grano avrà sete, ma non troppo perché non si allaghi e così per altre decine di fattori che influenzeranno inevitabilmente la coltura. Questo vale naturalmente per tutti gli altri tipi di coltura solo che l’ortolano farà, in un anno, quattro o cinque raccolti, avendo quindi la possibilità, se uno dei raccolti andava male, di rifarsi con il secondo; ma il contadino di cereali deve aspettare un anno e se poi andrà male non saprà cosa mangiare, perché tutta la sua ricchezza è legata a un solo raccolto.
Poi, quando in primavera nascerà la miracolosa erbetta, bisogna nettarla dalle erbacce che altrimenti farebbero soffocare la meravigliosa piantina che diventerà grano. Quando maturerà, andrà falciato e infine andrà trebbiato e portato al paese a dorso di mulo, a un quintale per volta. Ci darà finalmente il pane e anche tutto il resto; sempre naturalmente se sarà una buona annata.
Ma per fare quasi nove mesi di lavoro e tirar fuori finalmente questo prezioso prodotto, ci vuole un esercito di braccia; ecco perché quando si arriva al dunque il grano raccolto non riesce quasi mai a coprire le innumerevoli spese che si accantonano durante quasi un anno di lavoro. Quando il grano è pronto per essere falciato arrivano a frotte i braccianti per essere assunti. E’ povera gente, hanno con loro un fagotto con un tozzo di pane duro e qualche cipolla dentro e in un corno i ferri del mestiere: la falce e una lima per molarla ogni tanto, perché abbia il taglio sempre perfetto in modo che le spighe vengano decapitate a dovere. I braccianti contrattano con Pà che ne assume quattro o cinque per una settimana a 500 lire al giorno, vitto buono, ma alloggio dietro la casetta sulla nuda terra, sotto le stelle. Certo in terra c’è duro, ma in Sicilia d’estate non c’è umidità e la notte è meravigliosa! Da noi vengono tutti volentieri, Pà e Mà li trattano molto gentilmente come degli ospiti di riguardo con grande considerazione; sono lì accanto a loro e lavorano come loro e forse anche di più, per dare il buon esempio. All’alba, la lunga catena di falciatori prende d’assalto il grande campo di messi dorate che si piegano sotto le falciate volenterose dei braccianti.
Ogni tanto mia sorella Antonietta, una bella mora, con lunghi capelli ondulati che tiene prigionieri in un grande foulard e due occhi molto belli, smette di mietere il grano, va alla casetta e porta un grande paniere con morbide taralle fatte la mattina stessa; i braccianti prendono d’assalto il grosso paniere, ma soprattutto assaltano un fiasco, fatto di creta, che viene depositato nel pozzo per rinfrescarlo; questo era il nostro frigorifero. Dopo di che Mà, Pà, Antonietta, che al tempo aveva solo sedici anni e tutta la fila dei braccianti curvano la schiena, dando addosso alle messi, facendone dei grossi covoni che formano la gregna, che poi va posta al sole ad asciugarsi, ad aspettare di essere trebbiata; a breve, prima che qualche temporale estivo possa rovinarla. Il caldo torrido di luglio non perdona e i mietitori hanno tutti la schiena madida di sudore, che ben presto bagna la camicia; inzuppati come pulcini; se gli passi accanto l’odore forte del sudore ti sovrasta. Stanno quasi tutta l’estate per i feudi, in cerca di qualche giornata di lavoro e per lavarsi è davvero dura. L’unico fiume che attraversa la zona d’estate è in secca da mesi, sembra di stare in Africa. C’è solo qualche pozzo davanti ogni casa, scavato a bella posta per i bisogni della famiglia.
L’acqua è preziosa, guai a sciuparne solo un po’. Antonietta, dopo un’oretta, rifà il giro con il paniere delle taralle e con la fiaschetta del vino fresco per alleggerire la calura accumulata. Qualcuno si bagna la faccia con la fiaschetta dell’acqua. Hanno tutti in testa qualcosa per ripararsi dalla grande calura: chi un cappellaccio di paglia, chi un fazzoletto rosso a pallini, a cui fanno quattro nodi agli angoli a mo’ di copricapo; sembrano degli indiani. Arriva finalmente l’ora di pranzo. Nessuno ha un orologio, ma basta alzare il viso al cielo e quando il sole è nel centro, tutti sanno che sono le dodici. I mietitori possono finalmente riposarsi un po’ la schiena. Si apparecchia una lunga buffetta al fresco dietro la casa e Mà porta a tavola i maccheroni al sugo che sono una sua specialità. Non ci sono grandi secondi piatti: ulive al ranno, acciughe salate, formaggio di pecora, ma c’è n’è in quantità; qualcuno ne affetta un bel pezzo, ci infila dentro il coltello e lo arrostisce sulla brace. Che bontà, ne andavo pazza anch’io. Si sdraiavano poi un’oretta sulla terra nuda, all’ombra della casa e dormivano un poco. Verso le tre, quando il sole picchiava più che mai, si ributtavano a capofitto a falciare le spighe rimaste e fino al tramonto, sudavano come bestie e gareggiavano a chi mieteva più svelto dell’altro. Finalmente la mietitura era finita, le gregne erano disposte a lunghe file a seccare al sole; a guardarle da lontano, sembravano un reggimento di soldati pronti all’attacco del nemico. Adesso veniva la fase finale: la trebbiatura, ma la trebbia, non c’èra ancora e quindi questa fase così delicata veniva fatta ancora artigianalmente e si chiamava pisari. Fervono i preparativi, era come preparare le fondamenta di una casa. Pà piantava un grosso chiodo, dove aveva destinato di fare l’aria per pisari, poi vi legava uno spago e faceva una grossa circonferenza come con un compasso. Il cerchio doveva essere perfetto, non doveva sballare di un centimetro; l’aia era grossa come quelle piste da ballo estive che si trovano all’aperto nelle fiere.
Poi Pà provvedeva con una zappetta ad asportare tutta l’erba che c’èra. Quando tutto era ben pulito e raschiato, cominciava la seconda fase. Con una pazienza certosina cominciava dagli interminabili viaggi all’abbeveratoio delle bestie, l’unico posto da dove si poteva attingere acqua, con due muli carichi di due otri e ce la buttava sopra; acqua, tanta acqua in modo che la terra argillosa diventasse come cemento. Infine ci buttava sopra una spolverata di fine pagliuzza per assorbire l’umido e l’aia era finalmente pronta.
Questa preparazione richiedeva un paio di giorni, dopo di che si provvedeva a riempire l’aia dei grossi covoni, che erano stati messi al sole ad asciugare e quando questa era piena, Pà vi entrava dentro con due muli; lui stava in mezzo e con le redini in mano li faceva girare in tondo. Loro, riottosi sbuffavano e sbavavano per la fatica, facendo cosi sgusciar fuori i chicchi dorati. Era un vero rito, tutta la famiglia era riunita intorno all’aia ad assistere a quel miracolo.
Il babbo gridava qualcosa in dialetto ai muli come per redarguirli, per stimolarli a battere sodo quel mare di spighe pungenti.
I muli trottavano a fatica, i covoni erano alti e loro vi affondavano dentro. Pà scompariva dentro a quel mare di spighe aggressive, ma quel piccolo grande uomo era davvero speciale, anche quando la fatica lo stremava, lui rimaneva sempre del suo solito buon umore. Aveva un forte senso dell’umorismo, faceva tante smorfie clownesche per divertire noi piccole e noi scappavamo via ridendo a crepapelle. Quando i covoni si erano un po’ abbassati, si provvedeva di nuovo a riempire l’aia di covoni, sempre così fino all’esaurimento delle spighe da battere; questa operazione durava una settimana circa e Pà faceva solo con l’aiuto di Mà e dell’adolescente Antonietta, sempre al suo fianco. Un lavoro veramente duro, ma i ragazzi erano consapevoli che serviva il loro aiuto per risparmiare sulle spese e loro anche se ancora piccoli, lo davano senza fare storie; sui campi si vedevano bambini che avrebbero dovuto ancora giocare; erano tempi duri per i ragazzi. Per trasportare i covoni dal campo fino all’aia, Pà aveva costruito un rudimentale mezzo che si chiamava straula. Sembrava una di quelle slitte che si vedono nei film, fatte con due pezzi di legno laterale molto lisci in modo che potessero scivolare sul terreno, poi una base per mettere sopra i covoni e quattro arbusti ai lati che chiudevano in cima a mo’ di capanna.
Ricordava le piccole capanne degli indiani e agganciate alla sella del cavallo, faceva la spola tra i campi e l’aia a trasportare i covoni. Io e Teresa ci agganciavamo dietro e ci lasciavamo trasportare felici. Del resto in campagna non c’èra molto da divertirsi, i giocattoli erano praticamente inesistenti. Avevamo un pezzo di corda per fare i salti, una rudimentale bambola fatta di pezza da mia nonna Maria, una pallina bicolore sempre in pezza con un elastico attaccato, ripiena di segatura, motivo di eterni litigi con Teresa.
Questo era tutto il nostro corredo per giocare, quindi dovevamo aguzzare l’ingegno per divertirci. La mamma dalla casa poteva controllarci, andare in lungo e in largo per la tenuta ormai priva di spighe che si estendeva per 50 mila metri tutta intorno alla piccola casa. Per prima cosa ci fermavamo in un piccolo stagno per cercare di prendere i girini che invariabilmente ci sgusciavano via o ci davamo ad un frenetico safari di farfalle; se ne trovavano a centinaia di grosse, di piccolissime e dai colori meravigliosi. Il più delle volte ci inchiodavamo per delle ore a studiare un formicaio.
Le formiche ci erano particolarmente care, così attive ed instancabili, forse le vedevamo di buon occhio per via della famosa favola della Cicala e la Formica, che gli rendeva onore di grandi lavoratrici. Inscenavamo così con Teresa la commedia della formica e la cicala. Io invariabilmente tenevo per me il ruolo positivo della formica e avevo relegato Teresa al ruolo più vagabondo della cicala. Le gridavo piena di arroganza: “Tu cicala morirai di fame!” e per rendere più veritiera la recita andavo in casa e mi prendevo i buoni biscotti della mamma e me li mangiavo, lasciando Teresa livida per la rabbia di non poterli mangiare, perché lei essendo la cicala non aveva diritto, perché non aveva lavorato, ma cantato tutta l’estate; così la recita finiva sempre a calci, pugni e tirate di capelli, ed io ancora infierivo: “Tu cicala, brutta vagabonda!”.
Teresa era furibonda e quando crebbe, un po’ me la fece pagare a suon di morsi, ma me lo meritavo, ero troppo egoista; se c’èra qualcosa di bello da fare, volevo farlo sempre io; volevo essere sempre la protagonista. Dall’aia piena di grano, partivano file chilometriche di formiche che esportavano il grano fuori dalla tenuta, dentro ai loro formicai. Catturare mantidi religiose, grilli, bruchi, cavallette e metterle sotto un bicchiere per vederne le reazioni, era uno dei nostri passatempi preferiti. Alcune volte andavo con un’amichetta, figlia di coloni vicini, a raccogliere vavaluci, che si trovavano sull’alto monte di San Giuliano. La mamma le metteva a spurgare dentro una pentola per alcuni giorni, poi dopo averle ben lavate le faceva in umido. Il sugo era favoloso, ma non sono mai riuscita a mangiare nessun tipo di lumache, perché mi si rivoltava lo stomaco, benché la mamma ci si mettesse d’impegno per farmele mangiare.
Non ammetteva che in famiglia ci fosse qualcuno che rifiutasse il cibo. O mangia questa minestra o salta dalla finestra, questo era il motto di quasi tutte le mamme del periodo, tranne qualche eccezione, dove viaggiava qualche soldino in più. Quando calava la notte, mia madre preparava un grosso lettone sotto una coltre di stelle scintillanti, vicino all’aia per paura che qualche bestia o qualche furfante affondasse le mani nel prezioso prodotto che era già quasi nettato. Era una serenata senza pari, i grilli si scatenavano come un’orchestra dai mille elementi. Dormire fuori al sud, dopo un giorno di terribile afa è un miracolo che ti ristora, anche perché non cala una forte rugiada come succede al nord. Allo stesso tempo, tutto quel buio che si tagliava a fette mi atterriva. Io e Teresa ci stringevamo forte ascoltando Mà e Pà che parlavano pacatamente dei loro progetti, se il raccolto fosse stato buono e così noi fiduciose del loro tranquillo comportamento, cominciavamo a contare le stelle, fino a che non ci addormentavamo sfinite. Quando Pà sellava la cavalla per andare a fare rifornimenti alimentari in paese, diventavo isterica, cominciavo a piangere perché volevo che mi portasse con lui. Volevo a tutti i costi ritornare nella mia Castellana, là dove c’èrano tutte le mie amichette, per andare la domenica al campo sportivo a vedere la partita di calcio, indossare il mio abitino buono, confezionato da mia sorella Maria e andare alla messa delle undici, non tanto perché fossi già così cattolica come mia madre, ma l’atmosfera della chiesa mi piaceva un sacco. Il volto delle statue mi era cosi familiare che me li ripassavo più volte, in special modo Santa Teresa, che aveva un visino delizioso e mi pareva così dolce e comprensiva da potere raccomandarsi per qualsiasi cosa e poi c’èra l’odore dell’incenso, che riusciva a farmi sentire più buona e più leggera. Quando uscivo dalla chiesa avrei fatto poi una capatina dalla mia cara zia Angelina, dato che la sua bella casa a tre piani che io adoravo, si trovava proprio all’inizio di via Calvario, davanti alla chiesa. Avrei giocato con la mia cuginetta Maria Franca, che al tempo era un bellissimo batuffolo biondo, come mi sarebbe piaciuto essere a me, che invece, anche se molto carina, ero molto bruna e riccia. La zia Angelina che ricambiava in pieno il mio amore sviscerato per lei, mi avrebbe infilato in tasca dieci lire e mi avrebbe detto: “Lillinedda, vai subito a casa dalla mamma, che sta in pensiero”. Io le avrei ubbidito, avrei attraversato la piazza, sarei scesa per la scala d’angolo, attraversato il corso e sarei precipitata nel negozio che si trovava proprio lì davanti ed era gestito da due signori, marito e moglie u zù Mimì e a zà Ciccina a Ladiuna, di soprannome. Avrei comprato dieci caramelline da una lira l’una e sgranandomele strada facendo, saltellando con un piede sì e uno no, sarei arrivata finalmente in via Armando Casalini, a casa mia, che al periodo era l’ultima della strada. Ma due sculaccioni dati da mia madre di santa ragione infrangevano il sogno di ritornare a Castellana fino a settembre, quando tutti i lavori sarebbero finiti. Intanto la “pisatura” volgeva al termine. Giorni e giorni per i muli ad affondare i loro zoccoli dentro quella marea di spighe graffianti. Dal gran sudore si formava su di loro come uno strato di salmastro bianco e avevano gli occhi fuori dalle orbite dalla fatica. Quando alla sera il babbo li portava fuori dall’aia assolata, con almeno trenta gradi all’ombra dalla mattina alla sera, li copriva subito con dei grandi teli che si tenevano apposta. Madide di sudore com’erano, potevano prendersi una bronco polmonite e morire. Questo per un contadino poteva essere un danno economico di notevole importanza, che avrebbe pesato sull’economia già fragile, della famiglia. Ed ecco che oramai il volume dell’aia si era completamente abbassato. La continua ed estenuante fatica dei muli aveva ridotto la paglia in poltiglia e il grano era tutto uscito dalle spighe ed era lì pronto per essere spagliato. A questo punto la mamma commentava: “Siamo nelle mani di Dio”. S’nvocava il vento di tramontana, che a volte tardava a venire.
Si sperava nel cambio della luna nuova, ed ecco che quando soffiava la tanto attesa tramontana, la mamma, la bella Antonietta e Pà con un fazzoletto in testa che sembrava Arafat, si mettevano tutti in fila dentro quella circonferenza, piena di quel prezioso prodotto che tutto l’anno era stato atteso, inforcavano un tridente di legno e sollevavano con questi arnesi, manciate di paglia e grano in alto per nettarlo. Come per incanto, la paglia veniva portata via dal vento formando all’estremità dell’aria un pagliericcio che prendeva la forma di una mezza luna, come disegnato da un pittore e nella circonferenza rimanevano milioni di chicchi di grano ormai diviso dalla paglia. A seconda dei quintali di grano, il pagliericcio veniva alto anche due metri, sembrava un vero miracolo artigianale; se il vento tirava per il verso giusto in una simana si finiva di spagghiari.
Il grosso cerchio ora si riempiva di una grossa piramide di grano, che ci sovrastava tutti e Pà vi issava sopra il suo vessillo preferito, una bandiera rossa. Io e Teresa eravamo tentate continuamente di entrare dentro l’aia con i piedini nudi. Il grano ci solleticava e si infilava tra un ditino e l’altro e ci buttavamo come al mare sdraiate a fare le capriole, ma Pà non ci lasciava tanto fare. L’aia era un po’ una cosa sacra, non si poteva giocare con il raccolto tanto sudato, in pratica con il pane. Nel periodo che il grano era stato nettato, passavano a raccogliere l’elemosina per il loro convento i frati di cerca a cavallo, perché il loro convento distava dalle nostre campagne molti chilometri. Il babbo si divertiva un mondo ad entrare in polemica bonaria con loro e gli diceva: “Ma vede Padre, io vi farei l’elemosina per il vostro convento, ma questo grano vi farà certo male, perché io sono comunista e quindi tutte le mie cose me compreso, sono tutte scomunicate dalla chiesa, che credo non vorrà questo prodotto indiavolato”. I frati erano personaggi molto brillanti, gente di spirito e ridevano alle simpatiche battute del babbo, che vedendo la mamma diventar seria si affrettava a prendere la misura del grano; un “tummuno”, lo riempiva di grano e lo porgeva al frate che lo vuotava nelle sue bisacce. Il frate in cambio, ci dava un barattolo di ulive sotto salamoia e delle acciughine salate, che di così buone le sapevano fare solo in convento, infatti la mamma chiedeva loro le ricette che loro le davano di buon grado.
Per noi bambine c’èra l’immancabile santino che la mamma conservava dentro il messale come un oracolo, naturalmente dopo aver deposto sopra un devoto bacio. Ormai anche i nostri vicini della tenuta del Barone avevano finito di pisari ed era davvero uno spettacolo vedere le aie dei mezzadri, che venivano fatte una accanto all’altra. Venti o più piramidi di grano tutte in fila, sembrava un paesaggio egiziano. Bello si, ma ahimè, poveri mezzadri dovevano dividere a metà con il barone e da quando pagavano le sementi, il concime chimico e facevano mangiare tutta quella gerarchia di campieri e soprastanti, non gli rimanevano che gli occhi per piangere. Era una situazione davvero insostenibile. Lavorare per un intero anno come somari e non avere neanche la sopravvivenza, sempre pieni di debiti e di frustrazione millenaria. Pà si infervorava: “Il partito deve fare qualcosa per questa povera gente, non si può andare avanti così, sempre con le scarpe di pilo ai piedi”. Anche noi non navigavamo nell’oro, ma paragonati ai mezzadri, ci sentivamo un po’ più fortunati di loro. I nonni, con i loro sacrifici di emigrazione in America, non ci avranno certo dato la ricchezza, ma quantomeno ci avevano risparmiato l’umiliazione di lavorare sotto quella gerarchia di soprastanti, che con la loro arroganza ti condizionavano l’esistenza. Ma adesso bisognava trasportare tutto il raccolto a Castellana.
Pà portava Antonietta al paese per aprire la casa, che era ormai chiusa da quattro lunghi mesi e si facevano le grandi pulizie, perché finalmente la famiglia a settembre rientrava in paese, con grande gioia da parte mia che non riuscivo ad abituarmi a stare a San Giorgio. Adoravo la mia Castellana, che mi sembrava il posto più bello del mondo. Cominciava così la spola da San Giorgio a Castellana, con i muli per giorni Pà cavalcava avanti e indietro, con le povere bestie cariche di bisacce di grano. Pà teneva conto del fabbisogno annuale della famiglia. Il grano andava portato al mulino per farlo macinare e trasformarlo in farina, che sarebbe servita per fare il pane, la pasta, i dolci, ecc. Quello che avanzava lo vendeva subito, per poterci finalmente comprare, dopo un anno di spasmodica attesa da parte di tutta la famiglia, vestiti, scarpe, vettovaglie per la casa e tutti quegli acquisti che riuscivamo a fare solo n’a stasciuni.
Mamma metteva via qualche soldo, che doveva durare fino alla prossima estate, ma ahimè non arrivava manco in inverno e così si ricominciava a tirare la cinghia, fino alla prossima estate, che era finita solo da qualche mese. Meno male che in zona Iocca avevamo una vigna, dove andavamo tutte le mattine a raccogliere uva, fichi, mandorle, lattuga romana, pomodori, zucche, sorbe, pere, mele cotogne da cui la mamma faceva una squisita marmellata.
Mentre siamo lì esiliati io, mamma e Teresa ad aspettare Pà, che dopo avere finito di trasportare il grano deve trasportare anche la paglia, che sarebbe servita da foraggio per le bestie durante l’inverno, ci annoiavamo a morte. Io e Teresa siamo ormai stufe di correre in lungo e in largo per la tenuta, ormai sgombra di tutti i prodotti già raccolti. Passano in quel periodo frotte di povere donne a spigolare le spighe rimaste nei campi. Chiedono il permesso, che mia madre gli da di buon grado. Figuriamoci, con il suo animo da samaritana, se potesse darebbe via anche il grano pulito, ma con tutte le bocche che ha da sfamare, non può certo regalare, anche se in qualche modo riesce sempre a fare del bene. Dove c’è stata la mietitura rimangono sempre, tra le stoppie del grano, spighe a volontà. Le spigolatrici tengono legato in vita un piccolo sacco a mo’ di canguro e piegando la loro schiena setacciano tutta la tenuta, senza tralasciare una sola spiga. Dall’alba al tramonto, infilano le preziose spighe nella sacchina, che appena piena, vuotano in sacchi più capaci. Donne a cui era morto il marito e non avevano che questo mezzo per sfamare i loro figlioletti tutto l’inverno.
All’ora di pranzo si sedevano al fresco della nostra casetta e mangiavano un tozzo di pane duro e qualche oliva; era raro che mia madre non offrisse loro un piatto di minestra, ma loro non accettavano volentieri, perché si sentivano già in obbligo con noi, che li facevamo spigolare per nulla. Le galline tenevano le ali e il becco spalancato, la lingua di Morgan Peloso, il mio cane, sembrava che gli strusciasse per terra, ed anche noi eravamo sfibrate per la grande calura che sprigionava quel pezzo di Sahara. Per terra si erano creati dei crepacci, larghi anche dieci centimetri; se non guardavi dove mettevi i piedi, ci andavi a finire dentro. Ad un tratto il cielo si oscurava, i grilli smettevano la loro assordante e frenetica orchestra, che forse per il gran caldo, ti dava al cervello, un nibbio planava minaccioso dal monte di San Giuliano, dove aveva il suo nido e quando lo vedevi sapevi che era sceso per uccidere qualche preda da portare ai suoi piccoli, ed anche se questo lo scusava, io non potevo impedirmi di tremare e farmi venire la pelle d’oca. Avvertivi qualcosa di violento in quell’aria ferma e irrespirabile. Qualche piccolo uccellino sfrecciava via a tutta velocità, poi un grosso boato dopo l’altro e i primi temporali di settembre si scatenavano. La terra così arsa, assorbiva quella montagna d’acqua dentro i grossi crepacci che diventavano anche più larghi, con la violenza dell’acqua che portava via tutto quello che trovava sulla sua strada: legni, stoppie, frasche e animali selvatici morti.
La noia
Mi annoio, mi annoio da morire, ormai bramo di ritornare a Castellana, neanche fosse stata una metropoli piena di vita, ma per me lo era. La chiesa, il campo di calcio, la scuola che mi ha sempre divertito frequentare, la mia cara zia Angelina, la mia nonna Maria Paraola e il mio nonno Mariano Domina che adoravo, le amichette, di cui non ho saputo mai fare a meno, le mie scorribande per il paese. Lo passavo palmo a palmo e tutte le volte trovavo sempre un angolo nuovo che riusciva stupirmi. Ma ecco che a lenire la mia noia arrivano i pastori. Mio padre aveva da anni un contratto con un grosso gruppo di pastori che venivano da lontano, forse da Catania e quando noi levavamo le tende subentravano loro con le loro greggi. Nella tenuta c’èra molto da mangiare per gli animali e loro ci davano in cambio svariate forme di buon formaggio, di cui facevamo tesoro tutto l’inverno. Mi affascinava il loro mondo, che paragonavo ad un grosso formicaio. Erano molto organizzati e tutti molto attivi. Avevano centinaia di capi di bestiame: capre, pecore, vacche e relativi piccoli, di cui andavo pazza. Non c’èra niente che mi commuovesse come un agnellino, un capretto che facesse le capriole. Un vitellino che prendeva il latte dalla mamma riusciva a interessarmi per delle mezz’ore. Avevano una decina di bellissimi cavalli che curavano con brusca e striglia, in maniera davvero esagerata. Servivano loro per spostarsi per la transumanza.
Avevano una muta di bellissimi cani per aiutarli nel pascolare il gregge. Prima che arrivasse il grosso degli animali, arrivavano due pastori per preparare l’habitat per tutto quell’esercito di bestiame. Costruivano grossi recinti, steccati in legno molto resistenti che dovevano durare almeno tre mesi, fino a che mio padre avrebbe arato il terreno per il nuovo anno. Adiacente alla casetta costruivano un recinto in pietre che credo si chiamasse mannara.
Aveva un’entrata e due piccole uscite che si chiamavano badili; due pastori si mettevano accucciati davanti a queste due uscite e afferrata una pecora o capra per volta con una grossa secchia di legno in mano, vi mungevano dentro il candido latte schiumoso; appena finito con una, la facevano uscire e ne acchiappavano un’altra, ripetendo l’operazione fino all’esaurimento dei capi da mungere.
Ne usciva fuori un pandemonio, le pecore soprattutto belavano a perdifiato perché non si sottoponevano volentieri a questa operazione. Era un vero e proprio caseificio nomade. Attrezzatissimi, non erano i soliti pastori cialtroni e il loro lavoro si svolgeva all’insegna della pulizia e della precisione; nel loro ramo erano dei veri artisti, avevano con loro un corredo di grossi paioli in rame, pentole, pentolini e pentoloni; avevano una quantità di fascedde di tutte le misure, fatte di giunco, che servivano per dare la forma alla ricotta di cui alcune venivano salate come il formaggio e grattate sulla pasta al pomodoro. Io e Teresa siamo sempre alle calcagna dei pastori per spiare le varie operazioni, davvero interessanti. Loro ci coccolano e ci viziano regalandoci i loro squisiti prodotti.
Quando avevano munto tutto il latte anche quello delle mucche, lo mettevano in questi giganteschi paioli di rame e ci mettevano dentro il caglio, una sostanza che si estraeva dagli agnelli, quando questi venivano macellati e lo si conservava gelosamente, per poi servirsene al momento opportuno. Il caglio fungeva dentro il latte come il lievito nella farina. Dopo alcune ore, il latte assumeva una certa densità: era cagliato. Facendolo quindi bollire per un tempo preciso veniva su prima la ricotta e quindi la tuma che depositata in capaci fascelle di morbido giunco, diventava poi quella delizia di formaggio che noi bambine divoravamo arrostito sulla brace d’inverno. I pastori erano gente a modo. Il babbo aveva con loro rapporti da decenni e non vi era mai stato il minimo screzio.
Erano tutti uomini, lasciavano a casa le loro donne con i figli più piccoli. Era un lavoro duro anche perché dovevano spostarsi spesso per tutta l’isola, per trovare lidi sempre verdi per i loro greggi.
Erano tre nuclei familiari e portavano con loro i figli più grandi; avevano con loro tre figli per uno, ed erano dieci grossi ragazzoni con certe schiene da lotta libera e delle faccione bianche e rosse in cui traspariva tanta ingenuità e limitata cultura. Poveri ragazzi, li portavano dietro le greggi in tenera età e solo alcuni di loro avevano fatto le elementari. Erano molto timidi e molto rispettosi con la mamma che chiamavano Donna Giuseppina. Quando il gregge si riposava anche loro approfittavano; si sdraiavano sulla nuda terra, si calavano il cappello di paglia sul viso e facevano la loro meritata pennichella. Naturalmente ci doveva essere uno di guardia perché gli animali erano imprevedibili. Sembrava che dormissero tutti ma ad un certo punto una mucca si alzava e scappava, senza che riuscivi più a starle dietro. Vedere questi pezzi di marcantonio con fare dinoccolato e ciondoloni, mi faceva ridere. Ero abituata a vedere mio padre, che pur essendo di fronte a loro un uomo piccolo, si muoveva veloce e scattante nel correre in quà e in là e non riusciva mai a fermarsi se non al tramonto. Ma i loro tempi non erano frenetici come quelli di Pà; il loro problema era trovare dei lidi buoni da pascolare per le greggi; quindi una volta che li avevano trovati, se ne stavano lì, calmi e sereni, senza problemi. La sera mungevano il buon latte e gli adulti avevano il compito di fare il formaggio, che era un’arte acquisita nel tempo. E’ inutile dire che in quel periodo mangiavamo tanto di quel buon latte e la prima ricotta che veniva su nel grosso paiolo, era per noi bambine. Il pastore ce la portava affettuosamente in casa e diceva a mia madre: “Donna Giusepina, ce la faccia mangiare bella fresca ai picciriddi”. Mia madre, di pochissime parole, abbozzava un sorriso gentile e ringraziava il pastore diventando rossa. Era strano, lei che era così piena di personalità e teneva la famiglia in pugno, compreso mio padre, era al tempo stesso timida ed ingenua; per un nonnulla si copriva di rossore. La tenuta che fino ad allora era deserta era ora affollatissima. Il gregge passava a setaccio i campi, mangiavano spighe, fave, stoppie e la prima erbetta nata dopo il temporale. Le mucche mi facevano molta paura, forse perché non ero abituata a vederle, mentre le capre e le pecore si vedevano anche a Castellana. Dalle nostre parti non c’era molta pastorizia, forse mi facevano paura perché erano grosse e poi i tori ingaggiavano delle lotte furiose tra loro che duravano delle ore.
Anche i crasti, i maschi delle pecore ingaggiavano delle lotte tra loro, ma i pastori mi dicevano di non preoccupami perché lo facevano per molarsi le corna. Le povere pecore mi facevano una gran pena, almeno le caprette erano un po’ più sbarazzine e si adoperavano in simpatiche piroette, ma loro, le pecore brucavano sempre a testa bassa ed avevano occhi molto tristi, come chi è condannato ad espiare in eterno. Quando poi veniva la stagione della tosatura e i padroni gli prendevano il vello, per venderselo profumatamente, era davvero triste sentirle belare disperate, senza che nessuno andasse in loro aiuto. La mia passione erano gli agnellini, così belli, così teneri ed ignari della triste vita che li attendeva. Specie quando si decideva di ucciderli, non mi davo pace. Pà era soddisfatto di vedere tutti quegli animali nella tenuta e mi diceva: “Vedi figghia mia, con la concimazione che ora fa il gregge, il prossimo anno avremo un raccolto più buono di quest’anno”. La mamma, che stava a sentire rispondeva: “Certo, sempre se Dio vorrà”; per lei tutto era condizionato dal suo Dio e diceva “Non si muove foglia che Dio non voglia”. Mi affascinavano i loro cavalli neri dal pelo lucido, al contrario dei nostri poveri muli che lavoravano moltissimo, facevano una bella vita. I pastori li adoperavano solo per spostarsi, quindi stavano tutto il giorno ad oziare e a pascolare in mezzo al gregge. I pastori gli toglievano la cavezza e gli mettevano la pastura, per non farli troppo allontanare. Pà mi permetteva di cavalcare una giovane puledra per brevi tratti anche senza sella. Di solito alla sera la portavo ad abbeverarsi alla brivatura, una enorme vasca di acqua corrente, dove si abbevera tutto il bestiame della zona. Di solito queste vasche erano infestate da sanguisughe, che si attaccavano alle bestie quando queste vi immergevano il collo per bere, quindi la brivatura ogni tanto veniva vuotata e disinfestata. Quella sera che, cavalcata la puledra, mi portai ad abbeverarla, la vasca era stata vuotata e vi era rimasto dentro un bidone, quando la puledra si accosta per bere, non trova l’acqua e quel bidone dentro la spaventa, lancia un forte nitrito, alza le zampe anteriori e mi scaraventa dentro una grossa pozzanghera nera e limacciosa, dove sovente si crogiolavano i maiali. Ne esco fuori tutta ricoperta di fango puzzolente e ho un dito rotto.
Sono furente e spaventata e piango a dirotto. La puledra scappa e torna a casa da sola; Pà, spaventato, mi viene a prelevare con il suo cavallo e quando mi vede così conciata, non può trattenersi dal fare una risata. Io giuro di non cavalcare mai più quella stupida puledra, che mi ha tirato quel tiro mancino, ma Pà mi dice: “Non te la prendere, domani sarai di nuovo in sella”. E così fu. All’indomani, col dito fasciato, ero di nuovo in sella beata e felice. La mia fantasia galoppava proprio come in groppa ad un destriero. Notavo tra questi pastori, una notevole differenza di statura, con noi che eravamo decisamente più bassi; mi ricordai allora di una lezione di scuola, durante la quale, l’insegnante ci spiegò che i primi probabili abitanti della nostra isola fossero stati dei ciclopi con un solo occhio, come Polifemo, che abitavano nei pressi dell’Etna. Uno storico aveva trovato delle orme gigantesche, che testimoniavano così la loro esistenza e nei pressi del vulcano, erano state scoperte delle altrettanto gigantesche spelonche, dove si presume abitassero i ciclopi. Lo studioso asseriva che essi vivevano di pastorizia, ed erano prevalentemente vegetariani. Nel mio piccolo cervelletto, cominciò quindi a scattare una piccola molla. I pastori, questi pezzi di omoni, tutti sul metro e novanta, venivano anche loro dalle parti dell’ Etna; uno di loro era guercio da un occhio. Pensai tra me e me: “Che siano eredi di quei ciclopi?”. Non dissi niente a mia madre, perché mi avrebbe certamente derisa, anche se la mia fantasia viene da lei. Mamma aveva la caratteristica di inventarsi delle cose a cui poi credeva ciecamente pure lei. Buon sangue non mente. Comunque cominciai la mia indagine.
Facevo il terzo grado a quei poveri pastori. Più che altro perseguitavo sempre quello guercio, perché pensavo che fosse nato così e avesse così attinenza con il ciclope Polifemo, mentre quello poveraccio lo aveva mezzo accecato un toro infuriato, come seppi più tardi. Sapevo che anche Polifemo, come la leggenda racconta, era stato accecato, ma anch’io facevo come mamma, mi piaceva modellare, come con la creta, la storia a cui poi volevo credere nella mia maniera. La mia indagine continuava, cominciai a stare attenta a cosa mangiasse. Un giorno l’uomo si chino nei pressi della casa, tirò fuori un piccolo coltello a serramanico dalla tasca, colse una pianta d’erba selvatica che pulì per bene, poi si avviò verso il pozzo e mi dissi: “Ecco ci siamo, tu sei un vegetariano, tu sei un discendente del ciclope”.
Il pozzo rimaneva poco distante dalla casa. Mi nascosi dietro l’angolo del pollaio, da dove potevo controllare i suoi movimenti.
Il pastore fece scorrere la carrucola del pozzo, tirò su un secchio d’acqua, lavò bene la piantina selvatica, colta poco prima e cominciò a mangiarla. A questo punto uscii fuori dal mio nascondiglio e mi avviai verso il pozzo con un’aria da detective che ha scoperto il colpevole. “Ti ho colto in flagrante”, pensai. “Ora non puoi più negare che sei un nipote del ciclope!”. Gli chiesi con aria indagatrice: “Cosa stavi mangiando? L’erba cruda?”. Il pastore assentì sorridendo e mi guardò col suo unico occhio. “Assaggiane”, disse il pastore, “è molto buona e si chiama cattalepre. Devi sapere che ai miei tempi, in casa di mio padre eravamo in tredici figli e una volta c’èra più miseria di adesso e quindi quando lo stomaco reclamava, noi fratelli andavamo per i campi degli altri e ci gonfiavamo di erbe selvatiche”. “Ma le erbe selvatiche sono velenose”, dissi io, da saputella; “Ma no” rispose il pastore: “Devi sapere che io conosco da sempre le erbe velenose; del resto circa il novanta per cento delle erbe sono commestibili, solo che noi non le adoperiamo”. Indispettita per le sue normali risposte, gli chiesi allora se lui era nato con un occhio solo e se anche i suoi nonni avevano un occhio solo come lui e ancora volli sapere se nella sua famiglia erano tutti giganti come lui. La mamma, affacciatasi davanti alla casa e vedendomi così fitto fitto parlare con il pastore, venne ad attingere l’acqua al pozzo e mi sgridò energicamente. “Donna Giuseppina, non si deve preoccupare, la bambina non mi da affatto fastidio, anzi è così intelligente che è un vero piacere starla a sentire”. Pà aveva portato via a Castellana la mia sorellina Teresa, per far compagnia all’altra mia sorella Antonietta, che stava a casa perché mio padre andava tutti i giorni al paese per scaricare grano, fave, lenticchie, ceci; insomma tutti i cereali che erano stati raccolti. Nelle mie indagini sui presunti eredi dei ciclopi, mi appostavo come al solito dietro alla casa, quando loro pranzavano ed erano tutti insieme per sentire i loro discorsi. Sarebbe stato troppo bello se fosse trapelato qualcosa della loro origine. Tornare a scuola con una tale scoperta, aver conosciuto i discendenti dei ciclopi. Una mattina che io stavo ancora dormendo, arrivò una jeep, era il mio caro Mariano, il mio unico fratello maschio. Egli era l’orgoglio di tutta la famiglia.
Mario era molto intelligente, ed era anche bello come un attore. Aveva una magnifica fila di denti bianchissimi, ereditati da mia madre, due occhi neri come l’ebano e soprattutto uno sguardo che faceva molta presa sulle donne. Se vogliamo essere pignoli possiamo dire che gli mancava qualche centimetro per far si che si potesse chiamare un adone, ma era talmente agurusu, che gli si perdonava questo difetto. Mio padre aveva le lacrime agli occhi. Il suo unico figlio maschio, in cui aveva sempre sperato un appoggio per tutta quella terra da dissodare, gliel’aveva rubato la politica.
D’altronde Mario non amava la terra, perciò povero Pà si era rassegnato a lavorare tutta quella terra da solo. Mariano era venuto insieme ad altri due compagni comunisti. In quel periodo era uscita una legge che però non veniva rispettata. Quindi mio fratello insieme a Vito Tornambè, un laureato molto in gamba e al povero Pio La Torre, che molto tempo dopo, diventato senatore, venne ammazzato proprio a Palermo, nella sua città. Dicevo, mio fratello ed i suoi amici erano venuti lì per andare nei feudi vicini, per far rispettare la legge del 60 e 40 che prevedeva, contrariamente a quanto succedeva in passato di dare il 60% ai contadini e il 40% ai padroni.
Mio padre era raggiante: “Compagni”, diceva ai sindacalisti che erano lì con mio fratello, “c’è l’abbiamo fatta, forse la Sicilia grazie al nostro partito, uscirà fuori da quel tunnel di miseria secolare, da tutti quei soprusi e angherie che i feudatari riversano sui poveri braccianti”. I colleghi di mio fratello ridevano divertiti all’attacco di euforia di mio padre. Loro erano giovani universitari, ragazzi molto preparati, sapevano che non era facile tirar fuori l’isola dal suo torpore, sapevano che vincere una battaglia non voleva dire vincere la guerra contro il malgoverno, contro la mafia, contro papponi di ogni genere, che si sono da sempre ingrassati e che alla povera gente hanno lasciato solo le briciole. Mario da Palermo mi aveva portato una scatola di frutta di marzapane multicolore che sembrava vera, ma non la guardai neppure, avevo fretta di chiedergli una cosa. Lo chiamai disparte e gli dissi: “Tu che hai studiato, devi spiegarmi una cosa che mi serve per la scuola” e gli esposi i miei dubbi sui pastori, se potevano essere eredi dei ciclopi. Mariano mi accarezzò con affetto, mi ascoltò attentamente e scoppiò in una sonora risata:“Che fervida fantasia che hai”, mi disse: “coltivala piccola mia, ti tornerà utile quando sarai un pochino più grande. Vedi Lillinedda quello che ti ha spiegato la maestra è solo mitologia, ma sei ancora troppo piccola per queste cose”. Ne sapevo quanto prima e così delusa, lasciai perdere la storia dei ciclopi. Pà aveva finito di trasportare tutti i cereali raccolti. Io ero felice mi dissi “Finalmente si parte per Castellana”, ma Pà che aveva sempre voglia di giocare con me mi disse: “è no bella carusa”, accompagnando il discorso con le sue dolcissime mosse clownesche, per farmi ridere, “Non si può ancora ritornare a Castellana, perché adesso devo cominciare a trasportare la paglia, se no questo inverno cosa gli diamo alle bestie?”. “Oh no!”, eravamo già a metà settembre ed io ero idrofoba; non c’è la facevo più a starmene così esiliata in campagna, senza vedere nessuna amichetta, la mia zia Angelina, mia cugina Maria Franca, mio cugino Lilli. Con lui era un rapporto odio amore, perché essendo più grande di me era naturale che lui volesse dominare il nostro rapporto di giochi, ed invece io essendo già una peperina, non volevo saperne di rimanere in minoranza, così ci davamo sempre botte da orbi. Avevo nostalgia dei miei vicini di casa, tutti così amorosi verso di me. Ricordo con affetto Mommina la figlia di Don Cruci a Guardia, che era un tocco di bella ragazzona. Mi faceva sedere su quella panchina di ferro pitturata di rosso, posizionata davanti alla sua casa e mi raccontava “cunti su cunti” di fantasmi, di draghi, di folletti a cavallo con i “burriuna” russi, che io al momento adoravo, ma poi alla notte me la facevo sotto dalla paura e bagnavo il letto, con grande disperazione di mamma che mi minacciava, dicendomi: “Se non la smetti di fare pipì a letto, ti faccio mangiare un topo fritto!”. Mi veniva la pelle d’oca al sol pensiero, ma poi pensavo che non avrebbe osato tanto. Anche la mamma mi sembrava triste e stanca di stare lì in campagna.
A lei mancava certamente la sua chiesa. D’estate, per almeno cinque mesi non poteva andare alla messa. Lì a San Giorgio non c’era che un crocifisso sulla statale che dominava la vallata, nient’altro, anche se lei pregava lo stesso a più non posso. Sgranava tanto di quel rosario; una corona per ogni suo defunto e mentre pregava, sentivo che si assentava spiritualmente. Stava in ginocchio ad occhi chiusi e mani giunte davanti ad una piccola immagine della Madonna e sembrava in trance. Ora che il lavoro era finito non faceva che pregare per i vivi e per i morti; mi avviliva, mi faceva sentire così sola, così esclusa. Allora desideravo ardentemente che arrivasse Pà dal paese, lui così allegro, così pieno di vita. Mi mettevo dietro la casa ad aspettarlo perché da lì potevo vedere dove spuntava la “trazzera” che arrivava fino alla casa e quando finalmente vedevo in lontananza un piccolo punto bianco in groppa ad un cavallo, tendevo subito l’orecchio perché se era lui avrebbe sicuramente cantato o fischiato qualche motivo comunista, come “Bandiera rossa” o “Fischia il vento urla la bufera”. Ecco che cominciavo a corrergli incontro, come una disperata. Quando finalmente, trafelata lo raggiungevo, lui mi tirava su in groppa davanti a lui sulla sella, ed insieme facevamo l’ingresso trionfale, cantando “La sul Baranca c’è un grosso sasso, l’è il materasso del partigian”. Caro, caro papà! Stare con lui era una festa, di continuo, lui sapeva come fare a far felice un bambino, lo faceva sentire importante, lui sapeva giocare come un loro pari, sapeva diventare piccolo ed entrare subito in confidenza con loro; tutti i bambini lo amavano. Pà era la vita. La mamma, una creatura per me così bella, mi era talmente indispensabile, l’amavo da morire, ma non mi sentivo corrisposta. Lei, così immersa nel suo Dio, nelle sue preghiere per i suoi defunti, aveva finito per pensare di più alla morte che alla vita e a tutto quello che la circondava. Una sera verso l’Ave Maria, l’ora che il sole sta lanciando da dietro l’orizzonte i suoi ultimi raggi infuocati, un uomo a cavallo che sta tornando dal paese per la via statale, si ferma a parlare con la mamma. Sento che parlottano tra loro, ma non faccio caso all’argomento di cui stanno parlando. Aspettando Pà, in agguato per corrergli incontro, mi sono messa a pasticciare una casetta con l’acqua e la creta. Ad un tratto sento mia madre, che ancora sta parlando con l’uomo a cavallo e che alzando il volume della voce, si mette a piangere e dice: “Gesù mio perdonateli!”. Il passante continua la sua strada lasciandoci soli.
Lei è pallida e sconvolta; di solito reagiva così quando succedeva qualche disgrazia, allora sibillina le chiesi: “Mamma chi e morto?”. “Nessuno”, mi rispose, “ma tu ora tu devi rimanere sola per un po’ perché io devo andare a fare una visita”. Non le feci gran caso, avevo dato per scontato che era morto qualcuno, perché in questo caso lei si cambiava subito ed andava a fare la samaritana, portando con sè canestri di taralle per consolare i parenti del morto. Diciamo pure che questa era l’usanza a quel tempo a Castellana, e quindi continuai a pasticciare con la creta e con l’acqua. Ma la mamma non prese canestri di dolci come avevo pensato. Stranamente prese un secchio ed uno straccio che adoperava per le pulizie, non capivo proprio dove fosse andata con quegli arnesi che di solito puliva per casa, ma non me la presi troppo perché fra poco sarebbe arrivato il mio caro Pà ed io sarei scattata nella mia corsa per andargli incontro ed avrei così fatto l’ultima cavalcata della giornata, di cui andavo pazza. Intanto la sera calava e il cielo quella sera era tutto rosso da un infuocato tramonto estivo. Pà tardava ad arrivare.
Cominciai a stare in pensiero, mollai la creta mi alzai in piedi e cominciai con lo sguardo a seguire il viottolo che portava mia madre sempre più lontana. Dapprima pensai che andasse in una delle tre casette che distavano dalla nostra circa un chilometro a soccorrere qualcuno, ma poi mi venne in mente che nelle uniche tre casette come la nostra non c’èra più nessuno, perché avendo finito il raccolto prima di noi, erano tornati tutti al paese. La vedevo allontanarsi sempre di più; quando vidi che superò l’ultima casetta, cominciò a venirmi un po’ di batticuore; continuò ancora il suo percorso e si fermò finalmente alla brivatura, dove io andavo ad abbeverare la mia puledra. Ecco mi dissi, è andata a lavare bene lo straccio per pulire bene casa domani, ed ora ritorna subito giù. Risi quasi di me stessa per essere stata così sciocca ad avere avuto paura per nulla. Ma non fu così, la mamma continuava imperterrita il viottolo che dalla valle portava alla statale. La valle era tutta in vista, ma la distanza era ormai troppa. La sera calava sempre più ed io riuscivo a malapena a vedere di lei solo un piccolo punto nero, che si spostava sempre più su. A questo punto non sapevo più cosa fare.
Pà non arrivava, ed io ero oramai sicura che mia madre aveva deciso di abbandonarmi e con le mani imbrattate di creta, cominciai a strofinarmi gli occhi e a piangere disperata. Non devo aver pianto per molto tempo ma a me sembrò un’eternità. Poi mentre piangevo e guardavo sempre fissa lassù lontano sulla strada maestra, mi parve di rivedere un punto nero che tornava giù. Sarà lei che ritorna o sarà un miraggio. In quell’angosciosa sensazione di abbandono, attenta com’ero nel cercare di indovinare nel buio della sera, che ormai calato, lasciava intravedere le prime stelle, mia madre che ormai consideravo perduta, non sentii neanche gli zoccoli dei muli sul selciato davanti alla casa. L’arrivo di Pà mi aveva sempre resa felice, ma mai felicità fu grande come quella sera. Pover’uomo, tutto sconvolto per avermi trovato in quello stato di prostrazione mi chiese subito: “Dov’è la mamma? “. “E’ scappata!”, gli dissi. Lui, dolce come il miele, mi prese in braccio, mi lavò il viso impiastrato di creta, mi strinse forte e mi accarezzò assicurandomi che mai al mondo né lui né mia madre, mi avrebbero abbandonato. Mio padre era un uomo dolcissimo, era un papà avanti coi tempi di almeno trent’anni.
Pà si guardò intorno e vide che la mamma era ritornata; “Sciocca!”, mi disse, “vedi che la mamma è ritornata”. Rivolgendosi poi a lei con aria di rimprovero le chiese: “Dove diavolo sei stata? La picciridda è tutta tremante dalla paura”. La mamma era pallida, sembrava sconvolta e gli rispose: “Sono andata a riparare al male che altri hanno fatto”.
Quella sera ero talmente spaventata che mia madre mi avesse abbandonata, che non capii affatto dove fosse andata con quel secchio in mano. Il mattino dopo tornarono i pastori che erano assenti da una settimana e sentii la mamma che raccontava loro il fatto della sera precedente. Il passante che io avevo visto parlottare sottovoce con lei, le aveva riferito che il crocifisso sulla strada statale, poco lontano da casa nostra era stato imbrattato. Nel raccontarlo ai pastori si accalorava e il suo viso diventava paonazzo, pensando alla brutta azione commessa la sera precedente. Anche i pastori, gente timorata di Dio, ascoltavano quasi spaventati di quell’atto così basso, verso quel crocifisso a tutti così caro, considerando che nel raggio di chilometri e chilometri non c’era una chiesetta, nulla a cui i poveri contadini potessero rivolgere, non dico una preghiera, perché d’estate non c’èra neanche il tempo per pregare, ma almeno uno sguardo implorante per i loro crucci quotidiani. “Cosa potevo fare?”, commentò ancora la mamma, “il minimo era di andare a ripulire quell’orrendo oltraggio!”. Quel truce episodio che sicuramente potrebbe essere stato commesso da un qualche ubriacone, lasciò la mamma un po’ scossa, perché per lei, chi aveva osato una così brutta azione, non poteva essere stato che il diavolo. Mia mamma viveva in mezzo a noi, ma come in una vita parallela, in un suo mondo, in una sua dimensione dantesca: Paradiso, Inferno, Purgatorio. Per lei questa era la realtà ed in funzione di tutto questo, si muoveva parlava, agiva. Niente la distoglieva da tutto questo, indulgenze plenarie a destra e a sinistra erano per lei come gli sconti per le massaie al mercato. Il lasciapassare agognato per il suo paradiso. Non aveva in proposito il minimo dubbio solo certezze, come se lo avesse già abitato.
Io otto anni, Teresa cinque
Mia madre ci vietava di mangiare qualunque cosa fosse un peccato di gola e lo chiamava fioretto perché questo ci avrebbe schiuso le porte del paradiso. Mio padre a tal proposito ridacchiava e ironizzando, le diceva: “Ma lasciaci mangiare tutto, perché noi vogliamo andare all’inferno e stare belli caldi, mentre tu d’inverno tremerai dal freddo”.
Lei si infuriava e poi con un’aria paradisiaca gli diceva: “Che Dio ti perdoni, perché non sai quello che dici”. Quando per una disgrazia una persona moriva, magari in giovane età, lei non si preoccupava tanto del fatto che questi lasciasse dei piccoli da tirar su, quanto del fatto, per lei di gran lunga più importante, che questi fosse morto in grazia di Dio. In questo caso non vi era nulla da temere, perché il paradiso era assicurato, in caso contrario, fosse morto in peccato mortale, diritto all’inferno o alla modica pena del Purgatorio, per poter scontare i peccati veniali. Veder morire un neonato senza battesimo l’atterriva; diceva che sarebbe precipitato nell’oblio a errare per l’eternità. Ripeteva sempre che quà ci siamo solo di passaggio, che questa vita è una valle di lacrime. Nel dire queste cose, ella si rasserenava ed intendeva che il bello, se uno in vita si fosse comportato bene, dovesse venire dopo la morte. Bella, imponente, altera, ma troppo triste e quando Pà, che era sempre innamorato di lei come un ragazzo, le si avvicinava e gli dava i suoi famosi pizzicottini, lei non lo sopportava. Non che non gli volesse bene, ma le smancerie non erano il suo forte, non era capace di farle agli altri e non le voleva neanche per sé. Desiderai tante volte di ammalarmi per prendere le sue coccole, solo allora si sbilanciava e diventava tenera e amorosa con noi. Certo il dolore di avere perso una bambina in tenera età le rinnovava la paura di perderci e allora ci abbracciava, ci baciava, ci accarezzava. Ma appena guariti, ci metteva di nuovo in riga. La mamma aveva dentro un angolo buio di cui credo neanche lei sapesse niente. Pà aveva finalmente finito di trasportare al paese i cereali, erano oramai gli ultimi viaggi della paglia e il ritorno per Castellana era ormai imminente. Io contavo i giorni che mi separavano dalle mie compagne di scuola e dalla mia dolce insegnante Maria Libbrizzi. Oramai eravamo alla fine di settembre, dovevamo affrettarci perché il primo ottobre cominciavano le scuole ed io dovevo fare ancora gli ultimi acquisti scolastici, compresa una cartella nuova, che mi era stata promessa da Pà, perché ero stata brava ed ubbidiente. La mamma ed io eravamo sole, Teresa era già da un po’ a Castellana per fare compagnia a mia sorella Antonietta, che aiutava Pà quando andava a scaricare al paese.
I pastori ormai si spostavano con più frequenza per avere più foraggio per le bestie. Una mattina appena alzati, vidi mia madre che piangeva accorata ed aveva il viso tutto congestionato. “Cosa hai mamma?”, le chiesi preoccupata. Mi rispose in un modo che non aveva mai fatto prima. Aveva due occhi cattivi e mi disse: “Non fare la gatta morta. Tu sai benissimo che cosa ho, che cosa mi fa stare male!”. Ebbi paura del tono duro e minaccioso delle sue parole. Continuò a farmi degli strani discorsi, sul giusto modo di comportarsi che altrimenti Dio punisce severamente chi infrange i suoi comandamenti. Sentivo che la predica era rivolta a me personalmente. Lei si avvicinava a me minacciosa ed io indietreggiavo sempre più; mi dicevo: “Ecco adesso mi colpisce, adesso mi picchia”; aveva due belle mani, dita lunghe e forti e quando si decideva di darti uno schiaffone, lo sentivi per un po’. Ma per cosa voleva picchiarmi? In quelle frazioni di secondi, la mia piccola testolina prese ad analizzare tutte le eventuali colpe, che potevo aver commesso, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare nessun peccato mortale, al massimo veniale.
Avevo trasgredito ai suoi ordini di fare il fioretto giornaliero, ma lei non lo sapeva; avevo mangiato di nascosto i pasticciotti, mandatimi dal paese, dalla mia cara zia Angelina e questo poteva essere il secondo peccato per averle detto una bugia, ma oramai quelle non si contavano più; le bugie erano il mio divertimento preferito. La mia fertile fantasia, voleva modellare le cose tutte a modo suo ed io non riuscivo a controllarla. Mille volte mi ero ripromessa di smettere, ma era più forte di me, proprio non ce la facevo e quasi certamente a stimolare le mie frequenti bugie erano proprio i suoi continui divieti. A forza di indietreggiare, ero oramai appiattita contro la porta, lei mi era ormai addosso livida e piena di furore, quando il fischio del pastore che richiamava il gregge nell’aia la bloccò. Indietreggiò spaventata come chi è colto in fallo, mise dell’acqua nella vecchia bacinella di alluminio e con le sue grandi mani si portò dell’acqua sul viso e sul collo, come per riaversi da un incubo. Ora era calma, sciolse i suoi lunghi capelli neri come l’ebano sulle spalle, appena un po’ ondulati, che la facevano assomigliare al quadro della Gioconda e rifece nuovamente la treccia arrotolandola in un grosso chignon, sulla nuca. Tirai un sospiro di sollievo. Il pastore, sbattendo due volte le nocche sulla porta, era già entrato in casa a salutarci ed io ora sollevata lo guardavo come il mio salvatore e per paura di rimanere sola con la mamma, mi affrettai ad invitare a pranzo con noi il pastore, che si fermava spesso e volentieri, portandoci da mangiare le sue deliziose ricottine, nelle fascelle di giunco. A pranzo fu loquace con il pastore e parlò con lui del più e del meno. Nel frattempo arrivò il mio caro papà dal paese ed anche con lui mi sembrò che si comportasse come al solito, però io sentivo che le era rimasto qualcosa dentro come una rabbia repressa; evitava perfino di guardarmi. Volevo dirlo a Pà, ma povero caro era talmente stanco! E poi mi sembrò che lei non ci lasciasse un momento soli; pensai che lei non voleva che io riferissi a Pà quella brutta scenata e non lo feci, avevo cominciato talmente a temerla che solo un suo sguardo mi annientava. Pensai che la recente storia del crocifisso imbrattato di escrementi l’aveva fatta andare fuori di testa, tanto lei temeva il castigo di Dio sui peccati mortali fatti dagli uomini sulla terra.
Diceva sempre: “Non c’è più timore di Dio!”.
La rimpatriata
Si preparava la partenza per Castellana e io ero al settimo cielo.
San Giorgio era ormai deserta e non mi sembrava l’ora di ritornare in paese. La mamma mi sembrò più serena, ma leggevo nei suoi occhi qualcosa di indefinito e di misterioso che non riuscivo spiegarmi e ne avevo paura. Dopo circa quattro mesi di esilio forzato alla tenuta di San Giorgio, finalmente ci accingevamo a partire per la mia amata Castellana. Pà, verso sera, si accinse a caricare sui muli tutte le masserizie da portare a casa, compreso il lume buono a petrolio, ereditato dalla nonna. La cavalla la lasciò un po’ più leggera per farla cavalcare alla mamma che era davvero una provetta cavallerizza.
In quella zona collinosa, dove si alternano salite e discese ripidissime, lei imperterrita, montava sulla sella davanti alla porta di casa a San Giorgio e scendeva davanti alla porta di casa a Castellana, in via Armando Casalini o viceversa. I muli infilano la scorciatoia che va a finire proprio davanti al cimitero, che dista dal paese un paio di chilometri, almeno così la quantifica la mia memoria di bambina, ma a me non piace quel tragitto. Ho il terrore del cimitero, chiudo gli occhi, non oso neanche guardare da quella parte, non capisco ancora questa cosa terribile che è la morte, che ghermisce la gente quando meno se lo aspetta e la riunisce in un posto così angusto che si chiama cimitero. A me piacerebbe passare dalla statale dove passa anche la corriera ed a tratti è costeggiata da oleandri in fiore, dove si trova il bel casello dell’Anas, tutto tinteggiato in rosso, dove abitano due mie compagne di scuola Ida e Pina Sanfratello, perché il loro padre è capo cantiere dell’Anas. Pà non può accontentarmi, perché al passaggio della corriera o di qualche sporadica macchina, le bestie cominciano ad imbizzarrirsi e lui va fuori dai gangheri, provocando così la solita litania dei santi, ma in senso inverso e così mia madre avrebbe cominciato a bisbigliare sottovoce: “Dio sia benedetto, Dio sia benedetto!”, per scusarsi con tutti i Santi del Paradiso, offesi da Pà. Ci incamminiamo così tra decine di trazzere, piene di polvere, incontrando gli ultimi coloni che come noi stanno levando le tende. Evviva si sgombera, finalmente si torna al paese!
Dopo lunghi mesi di duro lavoro per i miei cari genitori, finalmente un po’ di meritato riposo. Avrei dovuto essere felice, entusiasta ed invece tutto ad un tratto mi sentivo triste, avvilita ripensando alle mie compagne di giochi, mi sentivo come esclusa, mi erano stati sottratti mesi e mesi di giochi gioiosi e come al solito non avevo avuto la gioia di conoscere i pochi villeggianti, che salivano da Palermo per sottrarsi alla forte calura estiva della città. Pensavo: “Saranno tutti tornati a casa”, e mi sentivo così spaesata e così nera. Sembravo una negretta, per tanti mesi così all’aria aperta, sempre a quel sole del sud, che sembrava volerti arrostire come la brace viva. In Sicilia nel 1948 essere abbronzati non è ancora segno di bellezza.
Essere belle, essere snob, equivaleva allora ad essere pallide, diafane. Mia sorella Antonietta, in campagna con quella terribile calura, portava delle camicette di cotone a maniche lunghe, per non abbronzare la pelle, calze lunghe, anche perché le stoppie del grano avrebbero letteralmente strappato le sue carni. Indossava grossi cappelli di paglia tipo messicano o grossi foulard, in modo da nascondersi al sole e rimanere più bianca possibile. Era una fatica inutile, perché anche se non ti esponevi direttamente al sole, la calura era quella che si trova nei pressi di un incendio, quando l’aria vicino al fuoco fa il verso delle streghe; quindi avevi voglia di coprirti, diventavi nera come un tizzone. Mentre i muli camminando schioccavano i loro zoccoli sui sassi della trazzera, io vagavo con i miei piccoli pensieri. Era oramai quasi buio, da un paese vicino si sentivano i primi rintocchi dell’Ave Maria e passando accanto ad una grossa dimora diroccata, che sembrava essere stata una villa di lusso (abitazioni di baroni o di conti, sul cui tetto, ormai rovinato dalle intemperie, rimanevano intatte le quattro statue che rappresentavano le stagioni), il rumore del nostro passaggio, spaventa una civetta che scappa lanciando i suoi lugubri squittii, volando proprio sotto il muso della mula di Pà che si adombra affilando le orecchie, allargando le narici e buttando Pà quasi per terra. I lugubri squittii della civetta, la sagoma della villa diroccata, ormai immersa nel buio, immergono la mia fantasiosa testolina in storie di fantasmi avvolti nei lenzuoli che scrollano con veemenza le loro catene.
Se tendo l’orecchio, sento distintamente il violento scrollare delle loro catene; se mi volto indietro intravedo tre sagome che ci seguono e con il cuore in gola deduco che siamo in trappola, ma sono solo le nostre ombre che il chiarore della luna rispecchia nella trazzera. Mi vengono a galla storie di tori infuriati che inseguono uomini, lanciando fiamme dalle loro bocche e incenerendoli; gnomi che cavalcano muli di notte nelle stalle terrorizzando i contadini. Insomma tutto quel repertorio di Mommina Russo, la mia vicina di casa, che ella mi racconta per strabiliarmi. Ne aveva in serbo una tale quantità, che quando le cominciava a tirar fuori, mi teneva delle ore inchiodata davanti alla sua casa, a due passi da casa mia, seduta in quella panchina di ferro a strisce laccata di rosso.
Ahimè, quasi sempre spezzava il nostro incontro fatato, Cruci a’ Guardia, il papà di Mommina, che incuteva su di me una dannata soggezione, forse per la sua aria burbera o forse anche per la sua divisa, non so. Ora capisco che il papà di una ragazza a diciassette anni non vedeva di buon occhio che la figlia si perdesse delle ore in scemenze del genere, mentre alla sua età le ragazze pensavano già a ricamarsi il corredo per prendere marito. Ma Mommina era un’anima pura. Fisicamente era già una bella donna, ma aveva ancora il cuore di una bambina. Ma ecco, ecco finalmente le prime luci della mia amata Castellana: arriviamo alla brivatura, dove Pà fa ristorare i muli e la cavalla. Vicino abitano mia nonna Maria e mio nonno Mariano, ma non li disturbiamo perché alla sera, come si suol dire, vanno a letto con le galline. Il paese è deserto; è ora di cena. Dall’interno delle case arrivano buoni profumi di cibo e tintinnio di stoviglie. Ecco la piazza del paese e subito dopo via Armando Casalini.
La mia strada è nuova, vi hanno costruito ancora solo quattro case. I nostri vicini ci vengono subito a fare festa. A zà Maria, la moglie della guardia e mamma di Mommina, è di una dolcezza senza eguali. Una bellissima famiglia che forse ho già descritto, ma l’amore che ho ricevuto da queste tre famiglie mi e rimasto talmente vivo dentro, che non mi stancherei mai di parlarne. Poi c’èrano Ciccino, Vincenzo e Rosina, una bella bruna molto intelligente ed infine Raffaele. La piccola peste aveva pressappoco la mia età, ma ne avevo una paura matta, perché una volta i bambini maschi erano tutti dei selvaggi, qualunque fosse la loro estrazione sociale.
A zà Momò e u zù Mariano, i suoi tre splendidi maschi e Maria, l’unica femmina che era l’amica del cuore di mia sorella Antonietta. Proprio accanto alla mia casa a zà Lucia, che a prima vista poteva sembrare un po’ ardita, ma mi ha dimostrato sempre tutta la sua simpatia; la suocera, nonna cicca, di una dolcezza infinita, che mi accarezzava con il suo unico occhio; mastro Turiddo falegname che mi faceva sempre raccogliere i trucioli senza esserne mai disturbato ed infine Lilli, una professionista che insegnava a Ustica. Avrei tanto voluto che mi facesse da madrina alla cresima, ma ci siamo trasferiti in Toscana e non feci la cresima che quando mi sposai.
Rientro finalmente in casa e provo una sensazione strana. Penso che la mia casa non è affatto una reggia, ma mi sembra tale, confrontata con quella rustica di San Giorgio. La mia cara sorellina Antonietta mi ha fatto trovare la crema con sopra i cannittighi multicolori, di cui vado pazza. Mi ritiro finalmente in camera, che è anche la camera di mamma, ma la parete più bella è la mia. Sopra il mio lettino, quasi lungo quanto il letto, vi è appeso il quadro più importante della mia vita: la Madonna della Catena. Tutto intorno vi sono un infinità di medaglioni con l’effige di tutti i santi possibili. Da quando sono nata, il quadro mi ha sempre fatto compagnia; i miei occhietti si spostavano da un punto all’altro del quadro e avevo un gran da fare a scorrerlo tutto da solo; sembrava una mostra intera.
Al mattino mi trovo, regolarmente nel dolce lettone dei miei genitori. La mamma intransigente come sempre non ce lo permetterebbe, ma Pà con la sua dolcezza, la domenica mattina ci consente di crogiolarsi una mezz’ora insieme a loro mentre fanno i loro progetti di sempre, per la numerosa famigliola. Io, Lilly sono più grande di due anni di Teresa e dovrei quindi rinunciare in suo favore alle coccole e a tutti i favori per piccoli, ma sono troppo egoista. Ho sempre avuto un bisogno smodato d’amore di cui nella vita non ho mai potuto fare il pieno. E’ mattino, Pà munge la capretta che tiene apposta per poterci dare il latte fresco e pieno di schiuma; io e Teresa facciamo gara a chi si fa i baffi più grandi con la schiuma. Esco da sola, a Castellana in quel periodo non ci sono pericoli, la mamma mi manda dalla zia, dalla nonna e anche alle botteghe, ma io intanto approfitto e vado in avanscoperta, girando tutto il paese un piede avanti e uno indietro; vado tutta a saltelli devo riconquistare tutto il tempo perduto a San Giorgio, devo rimettermi in contatto con tutti i personaggi a me cari.
Via Armando Casalini
Affacciandomi davanti alla mia casa a distanza di circa cinquecento metri in linea retta, posso vedere il piazzale della chiesa e la facciata laterale del campanile dove è installato il grosso orologio a numeri romani, disperazione dei miei primi anni di vita, per non riuscire mai a decifrarlo. La strada è larga, è una zona nuova dove sono state costruite ancora solo quattro case; ai bordi della strada vi sono ancora ammassati grossi blocchi di pietra, che gli scalpellini squadrano in modo perfetto per le nuove costruzioni; la strada non e asfaltata come il corso principale, ma fatta a ciottolato come quelle di tutto il paese. La mia casa, parecchi metri quadri di costruzione a pianterreno è in gran parte dedicata alle masserizie contadine: granaio, pagghiere, stalla, pollaio ed un posto dove Pà alleva regolarmente due suini per ricavarne salumi per la casa e la capretta per il latte. Tutto questo sull’uscita dietro, dalla parte della entrata principale c’è soltanto una porta e una grossa finestrina, dove un ladro che avesse voluto entrare, lo avrebbe fatto in un sol balzo, tanto era bassa; ma non era solo la finestra ad essere bassa ma anche la casa, perché Pà sperava ardentemente di potervi costruire sopra l’abitazione e lasciare sotto adibito ai fondi per il suo lavoro.
La casa era pitturata di bianco e lì davanti alla porta in stampatello marrone si leggeva il nome della nuova via: Armando Casalini. Vista da fuori, d’estate quando il sole picchiava fuori sull’asfalto, sembrava quelle piccole case nell’assolato Messico, da dove esce il classico cowboy, in stivaloni e giubba in pelle sfrangiata a duellare in un ultimo scontro frontale, in mezzo ad una larga strada sterrata.
All’interno della grossa finestra vi era un misto tra camera e soggiorno, all’angolo un grosso comò dove la mamma teneva gelosamente le sue tele fatte al telaio con le sue grandi mani e ricamate dalle mie sorelle maggiori Maria e Antonietta, che odoravano perennemente di spigo e di mele cotogne. In mezzo alla stanza, l’unico pezzo veramente buono della casa, un bellissimo tavolo in noce rotondo allungabile con una grossa base in stile che finiva con il classico tre piedi, comprato di seconda mano da una nobildonna decaduta; infine due turche che fungevano di giorno da divani e di notte da letti per Maria e Antonietta, completavano tutto l’arredamento della casa. Io e Maria Teresa dormivamo in camera dei genitori.
Le pareti della loro camera erano tappezzati quasi completamente da quadri sacri, accanto ai nostri lettini troneggiava, come ho già detto il quadro della Madonna della Catena, piccolo santuario locale alle porte di Castellana e precisamente nella piccola frazione di Frazzucchi. Sopra al letto matrimoniale, un bel crocifisso in velluto rosso con Cristo in argento; sopra l’ingresso che portava nei locali della pagghiera ne era stato ricavato un mezzanino da dove si accedeva con una scala volante a pioli e adibito a granaio e sopra il grano vi adagiavamo la frutta invernale a maturare; come pere, mele e mele cotogne, che rilasciavano un profumo che si diffondeva per la casa; il tetto del mezzanino sembrava una pergola da vendemmiare per l’abitudine di una volta di conservare l’uva appunto agganciandola grappolo per grappolo in un posto areato, in questo modo l’uva si conservava molto bene fino ad inverno inoltrato.
Nel soggiorno vi era una porta che dava in uno sgabuzzino dispensa, lo stanzino era sempre impregnato da un tanfo di formaggio perché e lì che riponevamo le formaggette che d’estate i pastori ci davano in cambio delle ristucce da pascolare. No, non ero innamorata della mia casa, non ne ero propriamente orgogliosa, ma non mi facevo scoprire da Pà, che ne era orgoglioso eccome! Di quel fabbricato che lui e mia madre si erano fatto con le loro mani, estraendo come diceva mio padre dei “mazzacani” dal fiume locale, con fatica bestiale. Pà era fiducioso, era sicuro che c’è l’avrebbe fatta a costruirci sopra; già la vedeva con balconi e terrazze!
Ma io non avevo pazienza, l’avrei voluta bella e subito, anche perché in quella via che sorgeva ora nuova, vi avevano costruito tutte case a due piani. La strada va leggermente in discesa, duecento metri dalla mia, sorge la prima abitazione a due piani con il famoso balcone; i miei più prossimi vicini sono a Zà Lucia e Mastru Turiddu Rosignoli; lui è un bravo artigiano, il loro pianterreno è tutto adibito a laboratorio di falegnameria; vicino all’ingresso c’è una candida scala di marmo che porta al primo piano ad un confortevole appartamento. I componenti della famiglia sono quattro: a Zà Lucia ha la pelle chiara e pochi capelli neri lisci che porta raccolti sulla nuca; a Zà Lucia soffre di frequenti e terribili emicranie che la costringono sovente a letto. Ella è una donna linda, non fa che pulire, la sua casa brilla, il suo bucato è candido come la neve, anche se della lavatrice non esiste ancora neanche l’ombra! La donna ha già una visione moderna della vita, ha una sola figlia Lilly; riescono a darle così quell’agiatezza che i miei genitori non riescono a dare a cinque figli. La signorina Lilly è molto carina, è una figura molto femminile e delicata. I vicini sono con me e Teresa molto affettuosi e disponibili. A volte salgo nel suo soggiorno in cui lascerò il cuore per quella grossa bambola che io non riuscirò mai ad avere e per quella meravigliosa palla dai variopinti colori di cui vado pazza!
Vorrei tanto rubare quei due magnifici giocattoli e scappar giù per le scale all’impazzata visto che alla signorina Lilly non servono più. Lei è ormai grande, frequenta fuori Castellana le magistrali e quindi quei due meravigliosi giocattoli che io sogno quasi tutte le notti, mi sembrano sprecati, inanimati, lasciati lì a sedere sopra quel grande tappeto persiano senza che nessuno ne goda. Una notte ho sognato di essere nel loro soggiorno, la grossa bambola si alza mi viene incontro ed insieme giochiamo con la palla multicolore.
Non ricordo di aver mai confidato mai a nessuno questo mio ardente desiderio; i ragazzi una volta erano già adulti forse perché consci di essere in ristrettezze economiche, come la stragrande maggioranza e non facevano capricci perché sapevano che era inutile.
Mastro Turiddu era un uomo simpatico, piacevole gli ero quasi sempre tra i piedi, nel suo laboratorio a recuperare tavolette per giocare ed a rincorrere i trucioli che saltavano fuori dalla sua ascia come folletti vivi! A volte Mastro Turiddu ci fabbricava delle minuscole seggioline per giocare e per me e Teresa era la felicità. L’artigiano era alto, un uomo asciutto con un mento pronunciato e portava in testa la classica coppola. Mi piaceva vederlo partire per la caccia con il suo cagnolino bianco a macchie marroni che abbaiava di felicità e si chiamava Giù Giù. Portava con sé anche un furetto che teneva dentro un cestino di vimini con tanto di coperchio; l’animaletto grande come un topo era un argento vivo e si muoveva continuamente, facendo suonare un campanellino. L’ultimo personaggio di casa Rosignoli è nonna Cicca; quando la vedevo mi si riempiva il cuore di gioia, ella non aveva per me particolari attenzioni ma percepivo che anche lei avesse per me un affetto particolare. Nonna Cicca, ormai ottantenne, una piccola dolcissima vecchietta che come tutti gli anziani portava lunghi abiti neri increspati in vita, un fazzoletto legato sulla nuca e sulle spalle la cheppa, una specie di liseuse fatta all’uncinetto. Quando nonna Cicca toglieva il suo foulard, io potevo ammirare la sua candida testa un po’ ricciuta che conferiva maggior dolcezza alla sua persona. La nonna aveva qualcosa ad un occhio che teneva quasi sempre chiuso e che le lacrimava, ma le bastava quel solo occhio per accarezzarmi con lo sguardo.
Io sentivo questa dolce sensazione che ella mi trasmetteva, tutta la bontà che ella emanava e ne ero felice, le stavo intorno a scodinzolare come il cagnolino Giù Giù, dicendo delle sciocchezze, facendola sorridere. Io e Teresa eravamo le sole piccole in tutta la nuova strada, forse può dipendere da questo se eravamo così coccolate da tutto il vicinato. La mamma almeno due volte la settimana metteva su la madia per mondare il grano da portare al mulino e nonna Cicca e a Zà Lucia venivano ad aiutarci. Si creava così un’aria di festa, un allegro chiacchiericcio e qualche risata, perché con mia madre che diceva sempre che il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi, non c’era certo da sbellicarsi dalle risate; era troppo contenuta, guai a quelle persone goderecce, non le approvava per niente.
Mi piaceva troppo che i miei vicini venissero qualche volta a trovarci, così forse per smorzare quell’aria grave che mia madre aveva perennemente; vederla sempre pregare non vederla mai sorridere mi metteva in cuore tanta tristezza. La mamma teneva con tutto il vicinato un buonissimo rapporto specie se c’èra da prodigarsi per far loro una puntura o qualche massaggio in cui era molto brava, per mettere delle sanguisughe; allora usava molto e in alcuni casi erano l’unico rimedio. Le tenevano in un barattolo, credo in bagno in qualche liquido che non ricordo; so soltanto che mi facevano molto senso, erano come dei piccoli serpenti e pregavo soltanto di non averne mai bisogno, perché al sol pensiero mi veniva da vomitare. Non ebbi mai la soddisfazione di vederla andare da un’amica o da una vicina per fare una passeggiata, una chiacchierata e quattro risate! Quando lei partiva, voleva dire che qualcuno era morto e allora andava a fargli visita, altrimenti a parte andare in chiesa dal suo Dio, lei non andava mai da nessuna parte.
Seduta sempre alla luce della grossa finestra, stava sempre a cucire e rammendare, che non le mancava mai. La mamma con le sue tre vicine di casa si chiamava cummari che dalle nostre parti, lo si diventa a tenere a battesimo o a cresima un figlio altrui, diventando così madrina o padrino del soggetto in questione. Questo lo si fa in tutta Italia, solo che al sud, questa cosa ha una valenza nettamente superiore, perché diventando padrino o madrina, il rapporto si stringeva come ad un rapporto di parentela e lui o lei si prendevano, in un certo senso, la responsabilità di vegliare sul figlioccio per tutta la vita, anche se solo a livello morale. Nel caso della mamma con le sue vicine, era una cosa come dire più leggera, si chiamavano comari di mazzetto cioè, un certo giorno dell’anno le donne si scambiavano dei mazzi di fiori diventando così comari di mazzetto, rafforzando quel rapporto di buona amicizia e di buon vicinato.
La strada scende ancora leggermente e dopo cento metri circa dalla casa dei Rosignoli, ecco la casa dei Russo. La loro casa è molto grande, al centro c’è un bel portone d’ingresso con una manina di ferro per bussare, in fondo all’ingresso un piccolo servizio e nella porta color legno vi è infisso, in alto, un grosso cerchio retinato; penso per dare aria al bagno, accanto al bagno una scala che va su al piano superiore, adibito tutto a reparto notte; a pianterreno a destra e a sinistra dell’entrata, una grossa cucina rettangolare e un bel soggiorno con dei mobili in stile. Le imposte sono tutte in rosso scuro e conferiscono alla casa un’aria simpatica e allegra, davanti alla loro casa vi è una panchina di ferro a strisce tinteggiata anch’essa di rosso, che faceva pendant con tutte le finestre, dove starò seduta per delle ore con l’ultima rampolla dei Russo: Mommina.
Ella ha quindici anni è mi racconterà favole a non finire che la mia memoria conserverà fresche per decenni, come incartate in un cellophan dorato. Ma veniamo agli altri componenti della famiglia.
Il capo famiglia si chiama Croce e fa la guardia comunale; un fisico asciutto e molto scuro di pelle, indossa sempre un’impeccabile divisa con tanti bottoni dorati. Invece di una guardia municipale mi sembra un generale; egli mi dà molta soggezione, non credo che abbia nulla contro di me, ma è tanto preso dalle sue cose che penso non mi veda neanche, mi sembra un tipo molto nervoso, non lo vedo mai sorridere e ho l’impressione che soffra di qualcosa e forse questo spiega tutto. Croce ha cinque figli a cui pensare ed i ragazzi studiano quasi tutti. La moglie, cummari Maria è tutto l’opposto del marito; la donna dal carattere dolce e di un’ingenuità disarmante, manda avanti una famiglia di sette persone con una serenità invidiabile; fisicamente assomiglia alla mia mamma, ha i capelli ondulati e porta uno chignon intrecciato dietro la nuca.
Anche lei, come la mamma, veste sempre in nero. Il lutto per una persona cara si porta per tanti anni e quando sarebbe ora di toglierlo, ecco che muore ancora qualche parente, dato le numerose famiglie del sud e così le donne sono quasi tutte perennemente vestite di nero. A Zà Maria indossa una lunga veletta di pizzo nero e va a messa tutte le mattine come mia madre; la veletta le dona molto, sulla sua carnagione molto chiara, ella è però meno triste di mia madre e più disincantata, più felice, almeno così mi sembra.
Il primo figlio dei Russo si chiama Ciccino, è molto più alto del padre, un bel ragazzone porta i capelli alla mascagna e veste molto elegante, non ho con lui nessun feeling, anzi lo sento lontanissimo; è già sulla trentina e sembra tutto teso verso il gentil sesso.
Passiamo poi alla figlia maggiore Rosina, una bella bruna, con la carnagione del padre molto scura e con una fila di denti bianchissimi che scopre sorridendo volentieri, la signorina Rosina è molto disponibile con me, che vado spesso a cercare sua sorella Mommina per farmi raccontare cunti su cunti, ma non c’è quasi mai, perché è sempre fuori a studiare, dato che a Castellana esistevano solo le elementari. Vecchio cruccio dei miei genitori, perché se vi fossero state le superiori in paese, almeno i figli maggiori avrebbero potuto studiare con più agio, dato che erano molto intelligenti; ma povero Pà, con tutte quelle bocche da sfamare e da vestire non c’è la fa proprio a pagare, fuori da Castellana, l’affitto di un appartamento e tutte le spese del caso. Ma torniamo alla famiglia Russo.
Vincenzo, il terzogenito è il mio preferito; ho solo otto anni e ne sono letteralmente innamorata, nel senso più innocente della parola, egli ha venti anni è un bel bruno ha un bel sorriso aperto e accattivante, uno sguardo intenso e robusto; è nerboruto come uno sportivo. Mi tratta come un’adulta; scherza e ride con me come fossi una sua coetanea e forse questo suo modo di comportarsi me lo fa sentire più vicino degli altri; provo per lui un affetto incalzante, un sentimento di amicizia profonda, come si può provare per un fratello più grande; Vincenzo ha una carica di simpatia prorompente, che conquista grandi e piccoli. A distanza di tanti anni ricordo ancora la sofferenza che provò quella piccola bambina quando Vincenzo venne dalla mamma per salutarla perché partiva per militare.
Il ragazzo era tutto eccitato perché partiva per andare a vedere il mondo per la prima volta! Io ero lì in un angolo e Vincenzo mi diede appena un buffetto e sparì, rimasi alquanto delusa! Che cosa mi aspettavo? Più considerazione, forse un bacio? Siamo arrivati alla mia amica Mommina ed anche se ha il doppio della mia età è una grande bambinona disincantata e felice come sua madre, che aiuta sempre nelle faccende domestiche; ma non appena ha un momento libero si affaccia sulla porta e mi chiama a gran voce “Lilly! Lilly! Lilly!”. Io accorro felice, ci sediamo sulla panchina rossa davanti alla sua casa e lei entusiasta, racconta, racconta cunti su cunti ed io la sto a sentire a bocca aperta e ambedue voliamo sulle ali di quei fantastici racconti, di fate, di streghe, di fantasmi e di tutto un po’. Quando il padre, Cruci a Guardia, la vedeva perdersi con me per delle ore, per l’ennesima volta la rimproverava: “Le ragazze alla tua età pensano a ricamarsi il corredo per maritarsi!”. Io mi facevo piccola piccola e sparivo, mi dileguavo alla svelta per paura che c’è ne fosse anche per me; lei ubbidiva subito, andava in casa ad aiutare la madre. Ma appena l’uomo con la sua impeccabile divisa, ripartiva per andare in comune, Mommina si riaffacciava ancora: “Lilly! Lilly! Lilly!”.
Io ancora una volta accorrevo felice e ancora una volta Mommina raccontava di gnomi del bosco; raccontava e riusciva sempre a stupirmi con i suoi fantasiosi racconti e mi inchiodava lì nella panchina rossa come ipnotizzata! Raffaele, l’ultimo della famiglia è il classico bambino terribile, posto che tutti i maschi a quell’età erano un po’ tutti così; ha solo dieci anni ed io ne ho una gran paura, sfreccia per il corso come un pazzo con il suo monopattino come quasi tutti a quella età e fà i dispetti a noi bambine che a dire il vero al periodo eravamo delle frignone. Raffaele era tosto, ricordo quella volta che cadde sopra una collinetta vicino casa mia a fare le cazcatummile e si ruppe la testa. Mia madre accorse spaventata da tutto quel sangue che gli colava giù per la faccia e trovandosi sprovvista in quel momento di un disinfettante, gli rovesciò sulla ferita un pacco di zucchero perché diceva lei, era coagulante! Raffiele anziché piangere non trovò di meglio che leccarsi con le dita lo zucchero intriso di sangue sulla testa! L’ultima casa dei miei vicini è quasi adiacente al corso Mazzini e quindi la più vicina al piazzale della chiesa.
La casa di cummari Momò, che di casato facevano Elettrico.
Ritengo di poter dire che in quel periodo fosse proprio la più bella casa di Castellana. Era faraonica: il mio sogno! Davanti alla casa c’èra un marciapiede molto spazioso in cemento rigato a quadretti, il mio posto preferito in cui mi fermavo tutte le volte che passavo per giocare alla singa, un tracciato fatto con il gesso a quadri numerati che forse qui al nord si chiamava pampano e con un sassetto si tirava sopra questi numeri ed era tutto uno sgambettarvi sopra per delle ore fino a che mia madre stanca di aspettare si affacciava adirata e gridava il mio nome a squarciagola. Il pianterreno della casa è adibito a reparto giorno e poi su, su per interminabili scale di magnifico marmo bianco che portano al primo piano e poi al secondo e poi fino al terzo che ha una terrazza che gode di una magnifica vista. Da una parte si vede la tenuta verde, i vigneti e la villa di don Sasà, dall’altra parte la chiesa vicinissima, la piazza e un bel tratto di via Mazzini, la villetta delle palme e molti, molti tetti di Castellana. Vi sarà un periodo che salirò tutti i giorni quella magnifica scala di candido marmo, per andare a giocare con Giuliana in terrazza. La scala non importa quale se quella dei Rosignoli o quella dei Russo o quella dei signori Elettrico, che era in assoluto la più bella con un bel passamano in ferro battuto, dove io cavalcavo in cima e scivolavo fino in fondo a rischio di rompermi l’osso del collo; io potevo accedervi senza essere vista, perché loro occupavano una cucina a pianterreno, adiacente il portone della scala e specialmente nel periodo in cui loro avevano affittato l’ultimo piano ad un maestro di musica, perché il portone rimaneva quasi sempre aperto. Quindi salivo su piano piano, crogiolandomi, sedendomi scalino per scalino ammirandola su, su fino in alto, poi uno scivolone su un tratto di scala e poi di nuovo su, su, desiderandola come fosse un grosso giocattolo. Il maestro di musica aveva due bambine: una piccola ed una che aveva quasi la mia età, ma di fisico era il doppio di me. Giuliana, la bambina più grande è alta robusta ed è bionda con occhi celesti; prendo una bella cotta per Giuliana che peraltro è una brava bambinona e vado con lei molto d’accordo.
Io e lei passiamo delle ore a giocare in terrazza ed io sono estasiata di stare lassù in alto, se mi affaccio posso vedere la mia piccola casa bianca a pianterreno, che di lassù mi sembra ancora più piccola; per consolarmi faccio scattare nella mia fantasia dei progetti molto elaborati, di scale e terrazze molto più belle di dove ora mi trovo e odo la voce del mio caro papà che parla di fabbricare e dice lo farà molto presto! Giuliana e la sua famiglia rappresentano per me una ventata di novità; raramente arriva qualcuno di fuori ad abitare a Castellana, quindi il forestiero è di per sé un avvenimento.
La mamma di Giuliana è il classico tipo cittadino, fuma come un treno a vapore, ha una voce afona che sembra perfino una voce maschile e mastica gomma americana, a quel tempo introvabile nei pochi negozi di Castellana. La donna, ancora abbastanza giovane era ormai sfiorita, la sua faccia era devastata dalle rughe ed aveva costantemente una tosse bronchitica che faceva paura, certamente era bruciata da tutto quel fumare una sigaretta dopo l’altra.
La moglie del maestro, portava capelli cortissimi tutti bruciacchiati dalla tintura e dalla permanente, aveva sempre ai piedi un paio di ciabatte tutte rovinate, che trascinava avanti e indietro per tutta la casa ed una vestaglia che indossava sempre dalla mattina alla sera. La signora mi sembrava sempre molto stressata. Com’erano diverse le nostre donne paesane!Tranquille, rilassate! Notavo che arrivate sulla quarantina esse non tagliavano più i capelli, avevano quasi tutte una grossa treccia che fermavano con le forcine dietro la nuca in un grosso tuppo, stando così in ordine tutto il giorno.
La mamma di Giuliana si agghindava, quando usciva come se dovesse andare a teatro. D’estate indossava un abitino di lino nero, con un fazzolettino di pizzo bianco in un taschino del corpetto; la signora aveva un fisico magro ed asciutto e così vestita faceva proprio una bella figura, non sembrava più la stessa che vedevo in casa in ciabatte e vestaglia. La moglie del maestro comprava borsate zeppe di roba, in paese era raro vedere le donne comprare tanta roba in un posto prevalentemente agricolo, dove tutti avevano l’orto e facevano il pane ed impastavano la pasta ed i dolci. La sua prima tappa la faceva dal tabaccaio dove faceva una bella scorta del suo veleno giornaliero. In quel periodo avevano aperto in paese, il primo forno elettrico e quando noi bambine accompagnavamo la madre a fare la spesa, ci dava un piccolo panino bianco che io divoravo come fosse un biscotto; da quel momento cominciai ad odiare il buon pane fatto in casa, che ovviamente molto più tardi avrei rimpianto, i salumi insaccati personalmente da Pà, ricavati dal maiale allevato in casa, che aveva mangiato solo ghiande e mele delle nostre, niente di eccezionale per quei tempi. Ma io andavo pazza anzi di un misero etto di mortadella; ero già divorata dalla passione di comprare, comprare qualunque cosa, a quell’età ero già una piccola vittima del futuro consumismo! Il maestro di musica era anche lui un tipo scattante e nervoso come sua moglie, per dirigere la banda indossava lo smoking, portava capelli lunghi a caschetto lisci come spaghetti. Quando era sul podio a dirigere con la sua bacchetta, l’uomo era come se andasse in trance e con una mossa nervosa e fulminea buttava giù tutta la testa in avanti e i suoi spaghettini bianchi e gialli, gli cascavano tutti davanti alla faccia che intanto gli era diventata paonazza, ma felice. Quando tirava su di nuovo la testa, ancora con uno scatto fulmineo, potevi leggere sulla sua faccia una soddisfazione immensa, in quella sua mossa plateale, metteva tutta la passione che indubbiamente il maestro aveva per la musica.
A vederlo in ciabatte per la casa, mi sembrava un uomo triste e apatico, mentre là su quel podio mi sembrava un rè. Ma torniamo qui al primo piano dei signori Elettrico; vi era un balcone lunghissimo per tutto il perimetro della larghezza della casa, balcone a cui anelavo fortemente di metterci sopra i miei piedini per scorazzarvi in lungo e in largo; ma siccome il suddetto balcone toccava tutto il reparto notte, non ebbi mai la gioia di poterlo espugnare. Il signor Mariano Elettrico è un signore di bassa statura dai candidi capelli ondulati; lui è sempre allegro anche quando a me non mi pare il caso, ha una voce argentina e non appena mi vede, mi corre dietro e mi chiama “ciridda! ciridda!”. In pratica come da noi si chiamano le galline per dar loro il becchime. Sulle prime ci rido sopra anch’io, ma mastro Mariano insiste pesantemente sul chiamarmi come una gallina ed io che a otto anni mi sento già una gran donna mi offendo a morte. Io, ottusa, non riesco a capire che lui si diverte un mondo con me, che vuol giocare con me; l’uomo malgrado la sua età, ha uno spirito giovane ed è una vera macchietta. La moglie del signor Mariano cummari Momò, ha ormai anche lei i capelli bianchi ma è ancora una bella donna, alta più di suo marito, ha una fossetta sul mento che me la rende simpatica, un carattere tranquillo e svagato; è con me affettuosa e disponibile e con grande disappunto, non posso fare a meno di paragonarla a mia madre ed al suo triste modo di essere. Per andare a casa mia devo necessariamente passare davanti alla sua casa e lui mastro Mariano è sempre lì davanti ad una grossa vetrata, seduto davanti ad una bancarella piena di pentolini con il mastice, di suole di cuoio, di scarpe da aggiustare; fa il calzolaio e batte con il suo martelletto. Io passo acquattata piano piano contro l’altra estremità della strada, ma non ho scampo! A lui non sfugge la mia piccola ombra che arriva con passo felpato, per non farsi scorgere, ed ecco che esce fuori dalla vetrata con la scarpa e lo spago arrotolato sulle mani, con il grembiule intriso di colla, mi guarda di sotto le lenti e ride, ride di cuore! La sua faccia si colora di rosso e ancora ride! Ride! divertito. “Volevi farmela eh? Ciridda! Vieni ciridda che ti do una cosa”, anche sua moglie a za Momò ride divertita, ma gli dice senza convinzione: “Lascia stari a carusa, non farla arrabbiare non vedi che non le piace essere chiamata ciridda?”. Io abbasso la testa e accelero il passo, sembro un piccolo toro infuriato; arrivo a casa trafelata e racconto tutto alla mamma ed alle mie sorelle, ma nessuno capisce la mia delusione; anche loro ridono di cuore del mio buffo soprannome, perché sanno che mastro Mariano è un burlone e lo fa con l’intento di farmi divertire, ma io sono una sciocca e non voglio sentire ragioni. I signori Elettrico hanno quattro figli, il loro menage è buono e riescono a farli studiare tutti e quattro. Il loro primo figlio si chiama Vincenzo, altezza normale capelli sul rossiccio, il viso ricoperto di efelidi, un carattere buono, dolce direi, anche un po’ timido e sensibile. Non ho con loro una grande confidenza perché sono giovanotti adulti. Enzo veste sobrio, indossa sempre un soprabito beige tipo gabardin, sopra vestiti di taglio classico; quando mi trova per la strada mi sorride gentilmente con uno sguardo complice e mi fa sentire grande come lui. Poi c’è Petruzzello, penso che si chiami Pietro; è tutto snodabile e scattante, veste elegantissimo, ha sempre la testa impomatata di brillantina Linetti; i suoi capelli sono ondulati ma con tutta quella brillantina non glieli scompone neanche il maestrale! E’ dritto come un fuso, porta in mano sempre un ombrello ed un soprabito piegato sul braccio: quando cammina sempre sveltissimo, sembra che stia dando un saggio di tip tap.
Anche lui mi sorride, ma è tanto preso da sé stesso, che a me sembra non abbia tempo per nessuno. Il penultimo figlio degli Elettrico si chiama Gino ed è il mio preferito, assomiglia molto alla madre, alto fine ed ha una fossetta sul mento, Gino studia ingegneria e questo me lo fa sembrare un Dio in Terra; anche lui veste bene ma non è tutto tirato a lucido come il fratello e i suoi soprabiti sembrano essere volutamente stropicciati. Quando lo vedo da lontano comincio ad aggiustarmi e faccio le fusa come una gattina: Gino mi dà un pizzicotto sulle guance, le sue mani sono così delicate! Ed io devo ammettere di essere una civettona prematura! Infine c’è Maria, la piccola di casa che assomiglia al primogenito, bionda sul rossiccio, col viso ricoperto di efelidi. Schietta, simpatica è l’amica del cuore di mia sorella Antonietta; insieme ne combinano di tutti i colori; hanno l’età in cui si ride anche sull’acqua. Ci sono i primi giovanotti che gli girano intorno e loro lusingate ridono felici, cominciano a partecipare ai primi festini da ballo che si danno ora in casa di uno, ora in casa dell’altro, stanno delle ore insieme ed io non capisco cosa abbiano da dirsi di tanto importante e segreto; se io mi avvicino per carpirgli qualche parola, loro smettono subito di confabulare irritandomi oltremodo. Invidio mia sorella e la sua amica perché sono in quell’età in cui si è obbligatoriamente belle: Antonietta ha una bella chioma di capelli corvina, tutta ondulata che le scende sulle spalle; Maria ha una maschietta sbarazzina che dona al suo viso volitivo. Le loro camicette sono molto strette sul punto seno ed io mi passo la mano davanti inesorabilmente piallata e mi chiedo con impazienza: “Quando cominceranno a crescere?”. Un giorno una vecchietta per burlarsi di me mi disse: “Ci vuole del lievito per lievitarle”, ma come fare? Dove comprarlo? Ero inesorabilmente al buio e nessuno si decideva a spiegarmi niente di niente! Siamo così quasi alla fine della strada davanti al garage di Michele Nantista e davanti al garage vi e una piccola strada chiamata Vanella, che va a sbucare proprio davanti alla mia scuola elementare sul corso Mazzini dal lato sud. Alla fine c’è all’angolo della strada l’ultima casa che dà anche sulla via Mazzini ed è mi pare il circolo dei combattenti, o forse dei cacciatori? Il primo dubbio sulla mia Castellana. Siamo comunque sul corso Mazzini si attraversa un pezzetto di corso e si imbocca a strata vecchia la chiamavano così proprio per distinguerla dalla mia che era nuova. Le case della strada vecchia sono tutte accavallate una all’altra come legate da un unico destino, alcune di loro sono scure e fatiscenti. La strada ha una curiosa impostazione: dal lato sinistro vi sono tutte le case quasi tutte a due piani col fatidico balcone, dal lato destro vi sono delle piccole casette a pianterreno tutte adibite a stalla o pagghiera ed ognuna di queste casette, apparteneva alla casa di fronte: è evidente che essendo stata una vecchia strada a livello contadino, penso che essa sia stata concepita con la stalla davanti, come ora il garage per la macchina. Io ci vado qualche volta a giocare con una bambina che si chiama Michela ed ha una stalla piena di bei cavalli perché suo padre li commercia; l’uomo ogni tanto ci fa cavalcare la cavalla pezzata che è la più bella bestia della stalla. Il padre di Michela ha l’aria di un commerciante consumato di cavalli ed è un pezzo di omone che porta la cintola sotto il grosso pancione. Vicino a Michela ci abita la mia vecchia balia, che mi aveva tenuta tanto tempo con se, quando era morta la mia sorellina Mimma di difterite che io non conobbi mai; andavo spesso a trovare la mia vecchia balia, con la lunga gonna fino ai piedi.
Faceva la calzettaia con la sua macchinetta circolare ed era l’unica nel paese a guadagnarsi da vivere facendo le calze per tutta Castellana. La mia balia, a za Gannorfa, era ormai molto invecchiata ed essendo alta si era anche incurvata, il suo viso però vedendomi si rischiarava e riandava indietro a circa dieci anni prima, quando le ero stata portata che avevo soltanto pochi giorni ed ero un bel batuffolo rosa a cui lei aveva dedicato cure amorose.
La vecchia signorina zia della mamma, aveva molto sofferto dopo due anni di essersi occupata totalmente di me nel dovermi ridare alla mamma e quindi povera donna avrebbe pagato per vedermi ogni giorno. Li vicino abitava un’altra vecchia zia della mamma che era vedova di guerra ed aveva dovuto faticare non poco, per tirar su tre figli maschi: era molto povera, abitavano in una casetta tipica che di solito si vedono nei film sul sud, un monolocale diviso da una parete: da una parte tenevano il mulo, il loro unico capitale!
Guai se gli fosse successo qualcosa! Sarebbero rimasti sul lastrico! La zia della mamma era minuta, aveva capelli crespi e candidi come la neve, che sembravano una manciata di quella lana di pecora, che lei filava a mano con quei fusi di una volta; portava un grosso scialle a tre punte fatto da lei all’uncinetto ed era buona e gentile; quando ella faceva il pane confezionava per me un piccolo pupiddo e me lo donava come la cosa più preziosa che possedesse. Mi piaceva immaginarla come la befana che portava i doni forse anche perché si chiamava Epifania. Un po’ più su, quando la strada prendeva un po’ a salire, abitava una signora che si chiamava Concetta Cannatella; spero di ricordare bene il cognome o forse era un soprannome. La donna era solita scambiarsi il lievito con la mamma quando facevano il pane, ed io con la mia proverbiale fantasia o chiamiamola pure sfacciataggine, un giorno le tirai un bel tiro mancino! Ero e sono sempre stata innamorata del mio prossimo, benché questi a volte mi deluda, ma questo è un problema suo, del mio prossimo, che in quei casi, non ha capito nulla di come ci si comporta.
Ebbene una mia compagna di scuola, l’amica del cuore di turno, fa il compleanno, ed io ardo dal desiderio di farle un regalino, ma la mamma ha altro per la testa che fare i regali e allora un giorno mi manda da Concetta per il lievito, la donna apre una cassapanca per prendere il lievito che è dentro un coccio di terracotta: in quell’attimo adocchio una piccolissima cassettina di legno dove la donna tiene qualche moneta e un paio di fogli da 20 lire, mi viene un batticuore, assieme ad una brillante idea: le dico tutto d’un fiato che la mamma oltre al lievito vuole in prestito anche 20 lire!
Roba da non credere! Per otto anni non c’è male! La donna rimane un po’ perplessa, è evidente che la Mamma non le aveva mai fatto una richiesta del genere, ma Concetta mi da egualmente le 20 lire in prestito. Porto il lievito alla mamma e naturalmente le nascondo accuratamente la cosa, non senza una certa paura, ma spero presto di recuperare quei soldi dalla mia cara zia Angelina che ogni tanto mi fa qualche regalino in soldi e quindi poter saldare il mio debito con Concetta. Ma intanto esaudisco la mia gioia, corro sparata lungo il corso Mazzini proprio accanto alla farmacia vi e una piccola bottega di alimentari gestita da a za Ciccina e u zu Mimì che tengono anche qualche cianfrusaglia; vi sono delle cartelle con delle spille attaccate, che costano giusto 20 lire, compro un cammello!
Lo porto subito alla mia compagna di scuola che abita li vicino per il suo compleanno e sono felice! Questo bisogno di dare ad ogni costo mi accompagnerà nel tempo, è come se io avessi un debito con la vita e bisogna che paghi per stare bene con me stessa. Pagherò poi a suon di sonori sculaccioni il prestito a Concetta, perché mi scorderò di riportarle i soldi, ed ella li chiederà alla mamma, che povera donna rimarrà allibita di tanto ardire, in una bimba di otto anni e con l’educazione severa che lei mi impartiva, senza lesinarmi anche sculaccioni a non finire. Proprio alla fine della strata vecchia, dalla parte nord, abitano due sposini novelli. Lui è un compagno, si chiama Mimì Carapezza e più tardi farà il sindaco di Castellana, gli sposi sono colleghi di mia sorella Maria, quella che lavora al partito comunista. Io vado a trovare spesso la sposina che si chiama Franca, che mi coccola e mi fa dei regalini: la sposina è molto spiritosa e mi dice che ha un fratellino che ha la mia età e me lo vuol dare per fidanzato, io mi schernisco, ma sotto sotto ci faccio un pensierino, mi piacerebbe molto in futuro, andare ad abitare da sola in una bella casina con il balcone naturalmente, senza quello non se ne parla nemmeno, lo desidero troppo, e fuggire dalle grinfie di mia madre, così severa che di più non si può. Faccio con la sposina dei sondaggi, su come funziona la faccenda tra fidanzati e tra sposati, ma quando scopro che bisogna andare a dormire nel lettone con un uomo ci ripenso e rivedo tutti i miei piani! Davanti agli sposini Carapezza in una piccola casa a pianterreno, abita una piccola donna che è un vero personaggio: a za Pippina. La donna è piccola e bella grassoccia, porta delle vesti arricciate in vita e lunghe fino alle caviglie, che accentuano ancor più i suoi prominenti fianchetti; porta sulle spalle la classica cheppa fatta in casa all’uncinetto color lillà. A za Pippina ha un viso rotondo e rubicondo, sempre paonazzo; la pressione arteriosa della donna dovrebbe oscillare sempre tra i valori più alti, dato che è sempre sul piede di guerra, irosa; è sempre terribilmente arrabbiata, ha pochi capelli in testa bianchi raccolti in un piccolissimo tuppetto sulla testa: se per un nonnulla qualcuno la contraddice, ella si piazza in mezzo alla strada e con le piccole mani rosee piantate sui fianchi da cui viene fuori un prominente pancione, e grida a squarciagola, con una voce metallica, tremenda da far paura. Allora la sua pressione sale, il suo piccolo viso diventa paonazzo più che mai e sembra che voglia scoppiare dalla rabbia. Di solito il suo interlocutore sparisce entro breve tempo, nessuno sembra farcela con quella piccola e irosa cittadina: che abbiano tutti paura come me? Io la temo davvero molto; qualche ragazzaccio che di paura non ne ha, gli grida dentro un piccolo finestrino, che dà sul suo cucinotto e poi scappa via come una furia, io non resisto ad assistere allo spettacolo anche se sono terrorizzata che ella possa dare la colpa a me. Ella si affaccia tutta scalmanata e mi guarda interrogativa, sembra una leonessa in pieno assetto di guerra, io la prevengo: “Io no, io no”, e scappo via anch’io come una furia! Certa che capitare tra le sue piccole mani fosse assai più pericoloso di capitare tra le manone di mia madre, che quando è il momento, fa del mio sederino uno stampo di fuoco!
Don Sasà
La strada continua a salire ora più ripida e senza più case ai lati, a pochi metri si trova la fontana pubblica, dalla quale quasi tutto il caseggiato attinge l’acqua. Pochi fortunati hanno già l’acqua in casa, l’acqua della fontana viene giù filo filo, e le donne con i secchi formano la coda come a fare la spesa; dalla fontana si crea un bel viale di acacie che costeggia tutta la proprietà di don Sasà, posta quasi su un’altura rispetto al paese, che lo sovrasta; è l’unica casa di Castellana che si possa chiamare villa anche se ormai è una costruzione vecchia e scura. Gli abitanti della villa sono don Sasà e sua moglie che ormai molto vecchi non scendono mai dal terzo piano della casa; i loro due figli maschi vivono quasi sempre fuori, in città.
Di lui si intravede la sagoma scura dietro le imposte dei balconi settecenteschi che come un fantasma si sposta ora dall’ala sinistra ora dall’ala destra della villa; don Sasà inforca il binocolo e sta a controllare da mane a sera tutte le sue proprietà che si estendono tutt’intorno alla villa. Se per caso vede transitare nella sua proprietà un cane o un ragazzo rubare un grappolo d’uva nei suoi vigneti, comincia ad andare in escandescenza suonando un campanello a mano, come quello che il prete suona per la benedizione!
Per farsi sentire dal fattore e sua moglie che abitano in due modeste stanzette giù dabbasso. U zu Peppi accorre trafelato, lui sua e moglie, a za Rusidda hanno dedicato molti anni della loro vita ad accudire i beni di don Sasà ma lui non sente ragioni, e gli dice: “Curri, Curri Peppi, che mi stanno rubando tutta l’uva e tu te ne sai tranquillo in casa senza badare ai miei interessi!”. U zu Peppi si metteva a correre dietro qualche monello, che per divertirsi batteva avanti e indietro tutto il vigneto facendo così rischiare l’infarto al povero zu Peppi. La proprietà di don Sasà si estendeva fino davanti alla mia casa, era recintata ora da rete metallica, ora da lunghi pezzi di muretti ornamentali chiamati musciddi con una pianta che faceva per fiore una specie di peluche come quelli che servono alle donne per spolverare, di cui noi ragazzi eravamo assolutamente attratti e assaltavamo queste piante rubandone grossi fasci per giocarci, facendo giustamente venire livido don Sasà, perché gli rovinavamo tutto il muro divisorio, ed anche u zu Peppi che doveva correrci dietro, con le sue povere gambe oramai stanche. Dalla mia casa alla villa ci sono circa cinquecento metri, ma anche da quella distanza mi sembra di intravedere la sagoma di don Sasà che mi spiava. Quella villa mi faceva un po’ paura, ma nello stesso tempo ne ero terribilmente attratta. A ridosso della villa c’èra un giardino meraviglioso!
Forse mi sembrava tale perché a quel tempo quasi nessuno a Castellana aveva il giardino e quindi non ne avevo mai visto uno! Per amore di quel giardino avevo fatto amicizia con Rusidda la moglie di Peppi e la pregavo spesso di portarmi a vedere quel misto di meravigliosa fioritura. Rusidda lasciava a metà i lavori in cucina, prendeva in mano la forbice da potare per tagliare dei tralci che io raccoglievo in un grosso paniere, per non fare arrabbiare don Sasà, che da dietro le finestre con il suo binocolo controllava tutte le nostre mosse! Cercavamo di tenerci nascosti tra le fronde fuori dalla portata del suo binocolo. Il pensiero che lui fosse lì sopra di noi mi faceva gelare il sangue, ma il giardino era così bello ed io sfidavo quel gelo. Certo mi faceva così paura perché non lo avevo mai visto. Essendo molto vecchio, non scendeva mai le scale e quindi io lo conoscevo solo per le grida tremende che indirizzava al povero zu Peppi. Si accedeva nel giardino dall’interno della villa, da un ingresso molto stretto di cui sopra un arco tutto fiorito di dolcissime roselline rampicanti rosa molto profumate; si scendevano alcuni scalini di mattoni rossi ed ecco che ci si trovava in un labirinto in cui perdersi, fatto di piante di alloro. Usciti dal labirinto ci si trovava davanti ad altissimi alberi dai fiori violacei che mai ho più rivisto; proprio lì accanto Rusidda mi fece vedere qualcosa che mai avevo visto che mi strabiliò: prese una manciatina di povere formichine da un formicaio, che erano intente al loro lavoro e mi disse: “Adesso stai a vedere!”. La donna si avvicinò ad una foglia dalla forma di una campanula e vi buttò le formiche, non appena la pianta sentì dentro qualcosa la campanula si richiuse ed inghiottì il bottino che Rusidda vi aveva buttato dentro, dopodiché la campanula si dischiuse e ritornò come prima. Mi tenni sempre a distanza da quella pianta carnivora, quella cosa mi fece un certo effetto che non ho mai dimenticato. Lo snodarsi dei vialetti ci portava dritti alla vasca dei pesci rossi, ma di pesci rossi ce n’era rimasto solo uno, tutto scolorito e anemico, doveva essere centenario come don Sasà. La piccola vasca era tutta ricoperta di muschio e quasi asciutta.
Li vicino facevano bella mostra di sé alberi nani di mandarinetti cinesi, smaglianti giacinti; un poco distante una profumatissima serra di fiori d’angelo candidi e antichi gigli di Santantonio.
C’era poi un particolare albero che non so che cosa darei per rivederlo ancora; l’albero aveva piccole fronde e piccole palline schiacciate come lunette, metà bianche e metà rosa, non so come si chiamasse, io l’avevo battezzato l’albero della luna. Quelle lunette avevano su di me un fascino particolare, a volte ne rubavo qualcuno che usciva dal muro di cinta me le mettevo in tasca e quando ero a casa me le rimiravo ammirata, mi ero messa in testa che davvero provenissero dalla luna e per questo le palline esercitavano su di me un certo fascino. Girando a destra ci si trovava davanti un grosso portone fatto ad arco dove una volta c’era la scuderia; dal basso, grossi fili di edera partivano e si avvinghiavano su per il muro della villa e salivano su come grosse braccia che volessero brandirla!
Ma ahimè! A questo punto le fronde erano finite e lui era li ad aspettarci imperterrito con il suo binocolo inforcato, appiattito contro i vetri; per vedere meglio apre il vetro, tutto tremolante viene fuori con il binocolo in mano e strilla forte: “Cu ie? Cu ie? Che cosa volete? Che cosa cercate?”. Rusidda grida forte per farsi sentire, per fare arrivare la voce fino a don Sasà che sordo come una campana ripete fino all’esaurimento: “Cui ie? Cu ie?”. La donna grida ancora: sono la moglie di Peppi con una figlia di Domina che mi aiuta.
Don Sasà sembra finalmente aver capito qualcosa e fà di si con la testa e scompare momentaneamente dentro la sua villa. Ci rituffiamo ancora dentro il giardino badando di non stare allo scoperto dalle fronde per non farci vedere, Rusidda e un pò svagata, si è sicuramente dimenticata che stava ripulendo in cucina e ha lasciato tutto a metà per accompagnarmi in giardino. Ma forse anche lei sta bene, lì dentro è tutto così distensivo, c’è una pace! Si ode solo il cantare degli uccellini, il profumo che si sprigiona da tutto quel cocktail di fiori ti stordisce e ti rende leggera! Dopo un po’ che vagavamo per il giardino io e Rusidda venivamo prese da brividi di freddo. I grossi alberi coprivano completamente la luce del sole e filtrava solo qualche raggio guizzante tra le fronde. Tutto intorno al giardino vi era un muro di cinta alto due metri; un giorno feci una scoperta: nel muro a partire da terra avevo scoperto un grosso buco che probabilmente degli operai facendo dei lavori non avevano richiuso; il buco di fuori si era ricoperto di erbacce, e di dentro lo coprivano grossi fasci di bocche di leone piccolissime rosse e affascinanti; anche questo piccolo fiore non l’o mai più rivisto.
Feci finta di niente con Rusidda, ero proprio una birbante, ma adesso sapevo che non avrei più resistito un solo giorno senza fare visita al mio giardino incantato, senza dover sempre disturbare Rusidda per farmi accompagnare. Rientravamo furtive cercando di evitare che don Sasà vedesse i nostri fasci di fiori, che la donna metteva davanti a una immagine sacra della Madonna appesa alla parete della modesta cucina, tutta affumicata dal fumo del vecchio camino. Le dicevo in proposito: “Rusidda perché non vai ad abitare nella villa? Ci sono delle stanze più belle di questa brutta e scura come quella di cenerentola, don Sasà ha tutte quelle stanze chiuse con tutti i balconi: fattene dare solo due per te e zu Peppi!”. Rusidda mi guardava quasi divertita e mi diceva: “Figghiuzza mia, quando nasce un povero sarebbe meglio sciogliergli subito l’ombellico per evitargli tante umiliazioni e tante delusioni.”.
A za Rusidda mentre rattoppava i pantaloni di zu Peppi dove vi erano così tante toppe che non si riusciva più a capire qual’era l’originale, raccontava, raccontava, aveva una gran voglia di raccontarsi, ella non aveva figli e zu Peppi era un uomo sempre stanco e di poche parole, duro con la moglie e quando le parlava era tutto un mugugno; così per za Rusidda rappresentavo qualcuno a cui poter parlare, d’altronde io non chiedevo di meglio perché in casa una volta ai bambini non si dava troppa importanza, ed io ero felice di sentire i racconti di Rusidda. Nei giorni che seguirono za Rusidda si ammalò e per un lungo periodo, il grande cancello della villa rimase chiuso: passavo e ripassavo ma la donna non veniva ad aprirmi nel sentirmi canticchiare, il segnale convenuto tra noi due.
Erano arrivati alla villa i due figli maschi di don Sasà che avendo finito gli studi in città, venivano più spesso a Castellana. I due fratelli non si assomigliavano per niente, il signor Aristide Miserendino credo sia stato il maggiore, era alto magro mi sembra che abbia un’aria un po’ seria, un vero aristocratico, vestiva sullo sportivo; indossava una giacca di renna morbidissima che sembrava persino dimessa e spiegazzata, color tabacco. Il signor Aristide è una persona educatissima, se passando trova la mamma davanti alla casa, cosa rara, perché ha troppo da fare in casa, lui si ferma qualche minuto con lei a parlare del più e del meno. Se però ero da sola a giocare davanti a casa, ambedue i fratelli non mi vedevano neppure; avevo la sensazione che mille anni luce mi separassero da quei gran signori che mi davano una grande soggezione. L’altro fratello don Vincenzino era tutto un altro tipo. Alto, robusto, impomatato di brillantina, una faccia rotonda ed impenetrabile, era molto fiero di se, sempre impeccabile ed elegantissimo. Brillante avvocato, penso che esercitasse a Palermo e a tempo perso faceva il sindaco di Castellana.
Passava sempre davanti a casa mia o con la sua fiammante automobile, mi pare una Balilla, ma non ci giurerei, so soltanto che adoravo quella macchina, che era la seconda che vedevo dopo quella di Michele Nantista. L’unico tassista del paese. Oppure a piedi con delle scarpe di vacchetta, anche quelle nuove fiammanti che facevano immancabilmente il rumore di sempre “cic ciac,cic ciac”.
Ero impaziente di ritornare a fare visita al mio adorato giardino, che avevo finito col paragonarlo al paradiso tanto decantato da mia madre. Ma alla villa c’erano ora i figli di Don Sasà che mi mettevano questa grande soggezione: un avvocato ed un ingegnere! Dicevo tra me intimorita! Ma a parte loro c’era alla villa un gran trambusto!
I vicini sentenziavano: “Don Sasà sta male! Don Sasà è grave! Non c’è stato niente da fare! Don Sasà è morto!”. Accolsi quella morte come una liberazione, dissi tra me: “Ora potrò andare e venire liberamente dal mio amato angolo di paradiso senza che lui mi terrorizzi con il suo binocolo!”, ma formulato quel pensiero, sentii subito un profondo senso di colpa, che mi tenne tutta la notte sveglia e non appena mi appisolavo mi trovavo davanti don Sasà che mi scandagliava da capo ai piedi con il suo benedetto binocolo. Lasciai passare un po’ di tempo anche perché il fantasma di don Sasà mi faceva ora più paura dell’originale.
A za Rusidda era sempre bloccata a letto con attacchi violenti di dolori reumatici ed il cancello della villa rimaneva oramai inesorabilmente chiuso, u zu Peppi era sempre curvo sulle distese di vigneti con un immancabile ciuffo di ginestre bagnate legate alla cintura, per legare le viti. Mi ero completamente dimenticata del buco intravisto nel muro di cinta, del giardino di don Sasà; mi venne in mente una sera che non riuscivo a dormire e stavo rimuginando come fare a scavalcare quel muro così alto. Al mattino mi alzai di buonora e dissi alla mamma che volevo andare ad attingere l’acqua alla fontana pubblica che si trovava proprio nel viale di acacie che conduceva alla villa. Mia madre si meravigliò un poco dato che di solito era una cosa che non facevo volentieri perché specie nei mesi estivi, la fontana buttava un piccolo filino d’acqua e bisognava aspettare delle mezzore per attingere un secchio d’acqua. Proprio di fronte al chiostro della fontana, sempre sulla proprietà di don Sasà c’era un roseto di rose gialle che noi ragazzi facevamo a gara nel mangiarle a bocca piena, senza che ci fosse mai venuto un mal di pancia; certo i genitori avranno saputo che erano commestibili, visto che ci lasciavano fare. Io e Teresa mangiavamo una quantità di erbe selvatiche come vere caprette: la Sulla, che da secca diventava fieno per foraggio, da verde faceva un fiore violaceo ed era dolcissima; i cuotilaciti avevano un sapore asprigno, ma buono; i masticuogni, penso che siano stati carciofi selvatici, dato che si assomigliavano e nel sapore e nella forma, la cattalepre, pensavo che fosse l’erba preferita dalla lepre ma questa era una mia invenzione.
Misi il secchio alla fontana che come al solito veniva giù filo filo e mi avviai trotterellando in avanscoperta alla ricerca del buco; decisamente non fu facile perché il muro di cinta era parecchi metri e dal di fuori le erbacce crescevano un po’ ovunque, quindi ebbi a sondare tutte le erbacce che crescevano in ogni dove, ma poi la pazienza fu premiata. Mi infilai decisa graffiandomi tutta ed in un attimo mi trovai dentro, davanti alla fontana ormai asciutta e senza neanche più quell’unico pesce scolorito. La fontana rimaneva allo scoperto dalle fronde e si vedeva chiaramente la finestra dell’ala destra della villa; istintivamente mi tirai indietro come se don Sasà potesse ancora vedermi, ma in quell’attimo mi ricordai che era morto.
Avrei dovuto essere sollevata, ma non lo fui affatto, anzi mi invase una paura ancora maggiore di quando lui era li, vivo appiattito contro i vetri delle finestre col suo binocolo a spiarmi. Mi guardai intorno, mi sembrò più buio del solito, avevo tutte le scarpe bagnate di rugiada e sentii un brivido percorrermi la schiena; pensai: “Sarà il freddo?”. Ma non era il freddo a procurarmi quei brividi, ma bensì la fifa; mi sembrava di sentire aleggiare su di me il fantasma di Don Sasà, quei brividi che ora provavo, erano di quella natura che avrei provato più tardi leggendo Agata Christie! Mi provai a raccogliere le mie preziose lunette, ma questo non mi diede il solito piacere di sempre anzi, mi fece sentire ancora più in colpa di avere rubato, mi guardavo continuamente intorno e mi sembrava di sentire distintamente dei fruscii ovattati. Tutt’a un tratto il giardino della villa a me così caro, mi sembrò terribilmente insidioso; mi sembrava di vedere quei grossi arbusti protesi verso di me con un’aria minacciosa.
Un terribile senso di colpa si era impossessato di me. Avevo paura dell’anima di don Sasà; mi tornavano in mente tutti i racconti di fantasmi, racconti blasfemi fatti dai vecchi nelle sere d’inverno e ancora i racconti sensazionali di Mommina Russo. In quel preciso momento sentii dietro di me un forte ansimare, sentii terribilmente la mancanza di za Rusidda, al mio fianco e pensai: “Ecco che l’anima di don Sasà che viene a vendicarsi con me perché entro nel suo giardino e vengo a rubare i suoi fiori”. Senza che la mia mente avesse ancora formulato il desiderio di andare via, le mie gambe correvano già verso il buco per uscire di lì al più presto; ancora quell’ansimare più forte e più vicino mi fece accelerare la corsa verso l’uscita quando sentii un terribile dolore alla gamba destra; girai la testa all’indietro e mi vidi letteralmente aggredita da due grossi cani inferociti che ringhiavano con l’aria di volermi sbranare senza pietà. Se in quel preciso momento non fosse passato u zu Peppi con il suo cavallo baio per la strada, me la sarei vista ancora più brutta.
“Ma non sapevi figghia mia, che alla villa sono arrivati i cani?”. Poi svenni e non ricordo più nulla; ricordo soltanto che imparai la lezione e non misi più piede nel mio dolce giardino e non rividi più le mie care lunette. Quando mi rinvenni, il nostro caro dottore Galbo, che con quella barba mi sembrava uno scienziato, mi aveva dato qualche punto e coalizzato con la mia severa madre mi aveva fatto una predica che ricordo ancora oggi, che è passato tanto tempo.
Il Gelso
Adiacente alla proprietà di don Sasà, c’è una minuscola casetta bianca con un piccolo appezzamento di terra che appartiene all’ortolano u zu Mariano u Cartiddaru; questo soprannome gli viene dal fatto che costruisce ceste di salici per tutti gli usi, ma li fà quando piove e non può lavorare la terra. L’ortolano coltiva fino all’ultimo centimetro il suo fazzoletto di terra e ne trae il sostentamento per la sua famiglia. Il piccolo appezzamento è tutto recintato da un alto muro, alto quanto quello di don Sasà e in mezzo ai due muri vi è la strada che porta alla piccola casa e poi prosegue fuori dal paese, per portare ad una frazione di Castellana e precisamente a Calcarelli; u zu Mariano coltiva le primizie più svariate; aveva piantato anche molti alberi da frutta e si vende tutta la sua merce direttamente a casa. In paese non c’erano ancora negozi di frutta e verdura, perché in un posto agricolo quale era Castellana, quasi tutti avevano la vigna in loco e l’orto; ma c’era sempre qualche professionista o impiegato che attingeva per i suoi acquisti dall’ortolano fra le più svariate piante da frutto. C’èra dentro quel piccolo terreno una grossa pianta di Gelso nero; ma era così enorme, che la circonferenza di tutti i suoi rami ricopriva tutto l’orto; per altezza sembrava che la grossa pianta fosse tesa a lambire il cielo, tanto era immensa.
Il gelso penso fosse centenario: i grossi arbusti si intrecciavano in lungo e in largo, pianeggiante tanto che l’interno del grosso albero sembrava un’accogliente capanna. L’ortolano un ometto magro e chiuso di carattere, non diceva mai una parola di troppo e che portava sulla sua testa ormai grigia e calva una papalina di lana confezionata all’uncinetto da sua moglie a za Pippina a Cartiddara, che naturalmente aveva ereditato il soprannome del marito.
La donna, al contrario del marito era enorme, bonaria e loquace ed aveva al collo un grosso gozzo tiroideo. L’uomo e sua moglie avevano creato da un solo albero di gelso un vero commercio.
I ciegi che maturavano d’estate, erano come grossi lamponi neri, ma molto più succosi; erano delicatissimi, bastava toccarli che ti tingevano istantaneamente le mani come una tintura di iodio; anche sul terreno sottostante l’albero, si creava una fanghiglia rossa come sangue, che macchiava senza pietà tutto quello che toccava. L’ortolano d’estate molto presto, si arrampicava sul grande Gelso e cominciava a cogliere gli ambiti frutti che andavano mangiati subito freschi di rugiada o si deterioravano inacidendosi.
Cominciavano così ad arrivare come formiche i castellanesi per acquistare i minuscoli panierini di salici che lui stesso fabbricava, pieni di gelsi freschi lambiti dalla rugiada mattutina, per attenuare l’afa che già alle prime ore del giorno era già insopportabile.
I gelsi diceva la mamma che avevano un alto potere rinfrescante; forse per questo si spiega quel grande accorrere a frotte di donne per comprare l’ambito panierino! “Ancora uno! Ancora uno a me!”.
è tutto un vociare di donne sotto il grande gelso; i panierini vengono giù legati ad un fil di ferro che l’ortolano aggancia al manico del minuscolo e desiderato involucro rosso sangue. I panierini sembra che arrivano dal paradiso tanto è alto il gelso; l’ortolano ha creato una vera e propria teleferica che va su con i panierini vuoti e riviene giù con quelli pieni. Sotto il gelso, la moglie dell’ortolano seduta su di una seggiola impagliata dal marito, davanti ad un piccolo tavolino, tiene la contabilità dell’ambito prodotto così tanto richiesto; la tariffa è di dieci lire per panierino. Io sto lì sotto a quel magnifico fresco del gelso a bighellonare, faccio passare tutti avanti, aiuto a zà Pippina a racimolare tutte le sue dieci lire, e lei poi mi regalerà il mio panierino di gelsi. Mi piace quell’allegro vociare che fanno le donne, sotto il grande albero intessendo, nel frattempo che aspettavano qualche pettegolezzo, a bassa voce, di cui non riuscivo mai a carpirne qualcosa. Io, essendo molto curiosa, mi indispettivo del fatto che non mi facevano partecipare alle discussioni, ma loro mi rimbeccavano: “Tu si nica e non puoi ascoltare le cose dei grandi”.
Accanto al grande gelso nero vi sono piccoli alberelli di gelsi bianchi; i loro frutti bianchi sono molto più piccoli dei neri, ed hanno un gusto molto delicato che assomiglia all’uva moscata, infatti li chiamano ciegi muscatieddi, ma non sono richiesti come quelli neri; chissà forse sono troppo a portata di mano, basta allungare un braccio e li puoi cogliere; vogliono quelli neri che arrivano dall’alto e così si va avanti tutta l’estate fino a che i frutti non si sono esauriti. L’ortolano d’inverno si metteva seduto ad un banchetto e cominciava a sfornare decine e decine di ceste per gli usi più disparati; alcuni di salici o di canne tagliate in piccole striscioline e centinaia di panierini che gli sarebbero serviti, quando appena usciti dal letargo invernale, finalmente ancora una volta sarebbe salito su ed avrebbe rimesso in moto la sua teleferica di panierini di gelsi neri.
L’eterno rituale delle stagioni sarebbe ritornato e ci avrebbe riportato puntualmente ancora i buoni gelsi maturi e succosi. Quando finalmente i clienti dell’ortolano sono ormai scemati ecco finalmente il mio turno: u zu Mariano mi consegna l’ultimo panierino colmo di gelsi e vi depone sopra le foglie per mantenere fresco il prodotto fino a casa e mi dice: “Hai travagghiato e chista è la to paga”. Non sto più nella pelle, mi sono guadagnata le prime dieci lire della mia vita, non posso fare a meno di pensare a quante dieci lire potrei guadagnare se piantassi un Gelso nella mia vigna; mi sembra l’ora di proporlo a mio padre. Mi avviai trotterellando verso casa seminando per la strada almeno mezzo panierino dei gelsi guadagnati. Quando arrivo davanti al cancello della villa di don Sasà, i cani attirati dall’abbaiare di un cane randagio, ringhiano furiosamente e fanno forza per uscire dalle sbarre del cancello. Se ci riescono sono perduta! Istintivamente mi guardo la ferita che loro mi hanno fatto azzannandomi che ancora non è del tutto guarita; chiudo gli occhi e passo velocemente: “Ce l’ho fatta!”. Ancora qualche gelso cade, il panierino è ormai quasi vuoto; quando arrivo all’altezza della fontana davanti al roseto giallo, strappo una rosa e me la porto in bocca, ma in quel preciso momento odo l’acuto di mia madre che mi chiama a gran voce: “Lilly! Lilly! Lilly!”. Butto la rosa, e comincio a correre, ormai i gelsi sono quasi tutti inesorabilmente perduti; arrivo a casa trafelata, ma ha un’aria che non mi piace affatto, non posso fare a meno di paragonare il suo modo minaccioso a quello dei cani contro il cancello. La sua soave voce di mamma si tramuta anch’essa nel latrato dei cani, ho la sensazione che mi voglia sbranare; “Ecco che ci risiamo”, dico tra me. Avevo tanto pregato che non risuccedesse più quella brutta cosa che le era successa a San Giorgio in campagna, quando era andata a pulire il crocifisso imbrattato di melma sulla statale! Ecco che ancora una volta il suo viso congestionato esprimeva orrore! Mi afferrò il panierino dei gelsi e lo lanciò contro il muro della cucina. I pochi gelsi rimasti si sfracellarono lasciando colare lungo il muro bianco il loro succo che sembrava sangue. Quel liquido rosso sembrò eccitarla anche più; cadde in ginocchio piangendo a mani giunte e rivolgendosi a me disse: “Tu mi farai morire!”. I suoi occhi ora erano cattivi come mai! Il suo viso era stranamente sconvolto; cercai istintivamente di scappare in un’altra stanza, per cercare mia sorella o qualcuno per difendermi, ma lei indovinando i miei pensieri sibilò ancora: “Non ti muovere di lì!”.
Mi appoggiai contro un angolo dopodiché scivolai in terra come uno straccio, il cuore e le tempie mi battevano forte come quando avevo la febbre, ed inutilmente cercavo di indovinare cosa le passasse per la testa, per giustificare quel terribile atteggiamento.
Conclusi che doveva essere indiavolata; avevo sentito parlare della mamma di una mia amichetta che si chiamava Lina, alla quale venivano questo tipo di crisi e l’avevano portata in un santuario per benedirla, ma subito dopo mi dicevo che era impossibile, la mamma, lei che andava tutti i giorni in chiesa a fare la comunione!
“No! No!”. Siamo rimaste almeno un paio d’ore; io accovacciata per terra come una bestiola ferita e lei in ginocchio con le mani contro il viso e la corona attorcigliata tra le dita a pregare il suo Cristo. Così ci trovò mia sorella Maria all’ora di pranzo, tornando dalla vigna per raccogliere frutta fresca. “Mamma!”. La interpellò mia sorella risoluta, “Non ti basta più di pregare in chiesa? Ora ti metti a pregare anche in casa di mattinata, con quello che abbiamo da fare?”. Lei si alzò, ora era calma ed il suo viso congestionato di prima era ora pallido, diafano; senza proferir parola fece finta di niente e cominciò a pelare le patate che aveva lasciato sul tavolo a metà. Ero decisa a dirlo a qualcuno, ma dire cosa? Lei non mi picchiava, non mi toccava neanche con un dito, mi faceva solo queste lavate di testa, ma io non sapevo perché? Provai comunque ad abbozzare il discorso con mia sorella, che ormai si era trasferita a Palermo a lavorare per il partito e veniva a casa solo per le feste comandate. Antonietta era andata al nord con mio padre, da mio fratello Mariano che aveva avuto una bambina e lei si era fermata per aiutare un po’ mia cognata; la mia sorellina Maria Teresa che era anche più piccola di me era anche lei oggetto di attenzioni morbose della mamma e poverina penso che soffrisse più di me essendo più piccolina. Era così carina, quasi bionda con i riccioli che le cadevano sulla fronte e un’aria così birichina; cosa potevano due piccole bambine contro quel male oscuro della mamma? Lei che da parte sua credeva di essere nel giusto, per farsi perdonare da Dio e da tutti i santi del Paradiso, tutti i vari peccati mortali che commetteva tutta la famiglia, si buttava a fare voti a destra e a manca. In paese usava fare le verginelle.
Si trattava di fare un sontuoso pranzo per i bambini poveri del paese in onore di San Giuseppe. La mamma di solito lo faceva per 19 bimbi. Doveva essere un pranzo a base vegetariano. Taglierini fatti in casa, dentro un buon minestrone di fagioli, cardoni fritti, meravigliosi nidi di finocchi selvatici fritti, baccalà fritto e come dolce le sfingi fritte. La mamma apparecchiava con religiosità con la tovaglia buona di fiandra, fatta con le sue mani al telaio. Nel muro davanti alla tavola troneggiava un quadro di San Giuseppe; si disponevano vasi di fiori di narcisi che da noi a Castellana si chiamano fiori di San Giuseppe; si tagliavano delle arance a metà, che venivano mangiate come antipasto e quando la tavola era bene imbandita di tutti quei vassoi giganti di fritti saporiti, di cui noi bambini andavamo pazzi, arrivava il prete che veniva a benedire la tavola.
Per quel giorno anche altre pie donne facevano quel voto di fare “U mangiari a San Giuseppe”, quasi sempre per grazia ricevuta e quindi il prete si doveva dividere fra tutti e non si poteva assolutamente cominciare a mangiare se il prete non arrivava a benedire la tavola. Ricordo un anno che molte donne fecero quel pranzo a San Giuseppe e il prete arrivò alle quattordici. Mia madre non ce la faceva più a trattenere i bambini che sentendo tutti quei buoni odori faticavano ad aspettare il prete che sembrava non dovesse mai arrivare per placare la loro gola. Quando i bambini cominciavano a mangiare ad ogni momento si levava il loro coro gioioso che gridava “Evviva u mangiari a San Giuseppe!” e fino a che il pranzo non arrivava alle gustose sfingi, tutte zuccherate, il grido si sentiva fino al piazzale della chiesa. Poi ancora il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, varie donne facevano a Castellana, la cucciia in onore a Santa Lucia.
Si trattava di mettere in bagno una certa quantità di grano duro, non ricordo per quanti giorni; per mia madre così devota, era un vero e proprio rito, poi il giorno 13 si metteva su molto presto un grosso pentolone di rame, che doveva essere cotto per l’ora di pranzo. Per quell’ora uno sciame gioioso di bambini che faceva scampanellare i vari pentolini di alluminio, si presentava alle case dove si cuoceva questo cereale che veniva offerto gratis, dato che era una cosa votiva a chiunque si presentasse alla porta, fino all’esaurimento del pentolone che bolliva e ribolliva ed era molto buono. Qui al nord dove io abito fanno la mesciua che sarebbe grano, ceci, lenticchie e fagioli; vanno cotti singolarmente, dato che ogni cereale ha un suo tempo di cottura e poi va mangiato tutto mescolato. Mesciua vuol dire mescolato.
L’occupazione delle Terre
Il 1948 fu davvero molto denso di emozioni che travolsero un po’ tutta la mia famiglia. Il partito comunista aveva mandato a Castellana mia sorella Maria, per seguire l’occupazione del feudo Alberì. C’erano in quel periodo in Sicilia delle concessioni governative che espropriavano i latifondisti a favore dei contadini che non avevano terra da lavorare. Tutto questo in teoria! Ma in pratica i contadini senza l’aiuto del partito comunista non c’è l’avrebbero mai fatta, anche perché i contadini stessi, che erano beneficiari di questa legge, erano timorosi di affrontare la cosa, che si presentava abbastanza complessa. Si trattava di occupare questi feudi, ararli, seminarli, prenderne insomma possesso e pagarne naturalmente il giusto affitto al feudatario. Ma il feudatario non era affatto d’accordo, perché preferiva farci pascolare i suoi greggi e quindi aveva disseminato sul territorio tutti i suoi scagnozzi con una muta di cani ed anche file di carabinieri che lo proteggevano. Quindi come fare ad occupare il feudo? Ci volle la passione sfrenata di mia sorella Maria, che ha sempre avuto per il partito e di tutti i compagni di Castellana che erano tanti. I loro visi me li ricordo tutti, ma solo qualche nome come Mimì Carapezza, Mariano Riforgiato, Mariano Troina.
è una vera sofferenza, vedo tutti i loro visi ed erano tanti, ma i nomi dei più mi sfuggono e tutti si adoperarono ed affrontarono le cose con una certa intraprendenza. Prima ci furono molte riunioni dei compagni che lavorarono a tutte le ore. “Compagni!” tuonavano i sindacalisti ai contadini “Voi siete nel vostro diritto, non dovete avere paura, dovete affrontare i feudatari che vi affamano perché la legge ora è con voi, la legge oggi vi permette di espropriare i loro pascoli per lavorarli; se ora voi vi tirerete indietro, loro alzeranno ancora più la testa e finiranno per schiacciarvi completamente. Voi avete bisogno di questa terra per dare da mangiare ai vostri figli e loro invece vogliono lasciarla incolta, per farci pascolare i loro capi di bestiame, per arricchirsi sempre più e per schiacciarvi sempre di più! Compagni!”.
Arringava ancora il sindacalista venuto da Palermo, che teneva la conferenza, “Noi vi sosterremo! Ma in definitiva voi dovete essere i grandi protagonisti di questa lotta, che rischia ora di impantanarsi e di andare a monte se tutti, ma proprio tutti, non metteremo grinta e coraggio! Dovete portare con voi all’occupazione della terra, le vostre donne, i vostri figli anche se non sono ancora in età di zappare; la famiglia si deve mobilitare! Tutti devono sentire l’esigenza di stare uniti in questa lotta per la semplice sopravvivenza; non è giusto scappare sempre al nord o addirittura all’estero, per guadagnare un tozzo di pane con tutte le umiliazioni che ne conseguono! Se ora c’è la possibilità di trarlo fuori dalla nostra terra, approfittiamone! Non lasciamoci sfuggire questa importante occasione!”. Ascoltando, mi infervoravo da morire; mi piaceva stare lì a sentire quei problemi per grandi, che però erano nello stesso tempo elementari, a livello da ragazzi! Non ci vuol molto ad un ragazzo sui dieci anni a capire che se non occupi quella terra, se non la lavori, domani non avrai da mangiare. Mi piaceva stare lì in mezzo ai compagni, mi affascinava quel linguaggio per addetti ai lavori; sentivo già l’esigenza di adoperarmi per i contadini, per i loro sacrosanti diritti; ero influenzata dall’ambiente politico, di cui mi impregnavo già da piccolissima. Avevo deciso: da grande avrei fatto il lavoro di mia sorella. In quel momento mi venne in mente mia madre, un brivido mi percorse la schiena; un’altra pecorella smarrita in famiglia? E padre Benedetto? Cosa avrebbe tuonato dal suo pulpito? Avrebbe certamente rincarato la dose di scomunica che già pendeva sulle nostre teste! Siamo al primo di ottobre, si aprono le scuole e sono molto felice di riabbracciare tutta la scolaresca, ma sono ancora più felice di riabbracciare lei, la mia dolce insegnante; in questo brutto momento che il mio cuore è così in tumulto per le violente aggressioni senza motivo della mamma, mi è così d’aiuto il suo dolce viso, il suo amorevole modo di fare, di insegnare. In questo momento di crisi della mamma, desidererei con tutto il cuore che ella fosse mia madre! Era una signorina che aveva tutti i requisiti per essere una mamma modello! L’apertura delle scuole cade sempre con il compleanno della piccola di casa: Maria Teresa; all’uscita del primo giorno di scuola, trovo sempre il dolce per festeggiare la mia sorellina che troneggia sulla tavola imbandita a festa, con la tovaglia buona di fiandra. La mamma per l’occasione ha fatto un pan di spagna gigante: abbiamo ospiti. Sono arrivate da Palermo delle compagne colleghe di mia sorella con un po’ più d’esperienza di Maria per dargli manforte nella lotta d’occupazione del feudo Alberì. A tavola le compagne parlano con entusiasmo del loro lavoro e più tardi preparano l’ordine del giorno per l’indomani.
Sono felice di avere gente in casa almeno mia madre non cadrà nel suo torpore maligno! Si perché oramai ho proprio constatato che le sue crisi scattano quando siamo sole io e lei. Dopo cena, riunioni alla Camera del Lavoro; anche Pà, tornato dalla campagna, si butta nella mischia con tutto il suo entusiasmo di sempre.
Mia sorella mi permette di andare con loro e così assisto affascinata a tutti i dibattiti, a tutti i preparativi per questa benedetta occupazione terriera. I contadini più sprovveduti pongono mille domande, mille quesiti alle compagne sindacaliste che li rassicurano: “Non correrete alcun pericolo!”. Nei giorni seguenti i sindacalisti arrivano ad un certo accordo, così i contadini fanno il loro primo grande passo. Affondano i loro aratri in seno a quella terra vergine e fertilissima a quanto affermano i vecchi contadini del luogo. Siamo tutti entusiasti ed emozionati, le bandiere rosse sono state issate su quella benedetta terra promessa! Tutto il mondo contadino attende i risvolti di quella benedetta conquista, ma i sindacalisti non sono ancora tranquilli perché sanno che, fino a che i campi non sono stati seminati non potranno prendere possesso del territorio: così dice esplicitamente la nuova leggina. Anche mio fratello Mariano in questo stesso periodo svolgeva lo stesso capillare lavoro di Maria: “L’occupazione delle terre! La terra ai contadini!”. Si trovava però in una zona molto pericolosa; Castellana era un posto molto tranquillo e dai tempi del dopo guerra non era più successo nulla. Mariano mio fratello operava però a Corleone, zona come tutti sanno ad alta densità mafiosa, laddove cadevano i morti come in guerra, dove in piazza la domenica, mio fratello vedeva sfilare tutti quei cani bastardi, che hanno infangato il nome della nostra cara isola; quasi giornalmente il telefono di casa suonava sinistramente dicendo: “Vattinni da Corleone altrimenti ti facciamo la pelliccia ah! Signor Domina tu hai i giorni contati!”. La delicata biondina neo sposina mia cognata era letteralmente terrorizzata allo squillare del telefono, per quello che avrebbe potuto succedere a suo marito. Le occupazioni nel corleonese erano certo più sofferte che a Castellana; Mariano doveva muoversi in quell’ambiente così inquinato con molta circospezione, se non voleva rimetterci la pelle. Alla notte aveva escogitato di travestirsi da vecchietto alticcio, con un bastone e così conciato prendeva contatto con i contadini, dato che a quel tempo pochi avevano il telefono in casa. Mia madre aveva il suo bel da fare a sgranare corone di rosario a non finire per tutte queste pecorelle smarrite! L’opinione pubblica in paese, poiché quasi tutta clericale, invece di sostenere questa lotta dei suoi braccianti più bisognosi di terra e perciò di lavoro, ci giudicava come dei vandali che vanno ad appropriarsi della proprietà altrui. Il comune di Castellana fu allora e per decenni in mano alla DC. Essere democristiano voleva dire essere con Cristo, essere comunista voleva dire essere l’Anticristo per eccellenza; perciò con una cultura come quella siciliana, pilotata prevalentemente da clericali, si spiega il perché la democrazia cristiana l’abbia sempre fatta da padrona. Ma tornando alla nostra occupazione terriera, sta ormai per scadere il termine per la semina. “Ora o mai più!”, grida il sindacalista sfinito dagli intoppi.
E con enfasi il sindacalista continua: “Compagni! Teniamo duro, qui si stanno tirando fuori mille, cento cavilli affinché la nostra lotta si impantani, ma noi non ci faremo intimidire ed andremo dritti per la nostra strada!”.
La sera si tenne l’ultima riunione che durò fino a tarda notte e finalmente si decise di partire la sera dopo. Partii anch’io con altri cinque o sei ragazzi della mia età; qualcuno disse che se c’erano dei ragazzi ci avrebbero pensato due volte a fare delle violenze o delle ritorsioni sui contadini. Così si caricarono le sementi e saliti a dorso dei muli si partì alla volta del feudo da occupare che si trovava in confine con la campagna di San Giorgio. Lo stato d’animo non era certo dei più allegri, tutti erano muti, si sentiva solo lo scalpiccio ovattato dei muli sulla trazzera ed il guaire sommesso di qualche cane. Un fiume separava San Giorgio dal feudo Alberì e siccome in certe stagioni era in secca, di notte con la luna sembrava una grossa autostrada. Abbaglio che avevano preso anche i tedeschi nell’ultima guerra e l’avevano bombardata a non finire, scambiandola appunto per una grossa strada strategica e subissandola di razzi luminosi.
La nonna Maria raccontava terrorizzata: “Invece di menzannotte pariva minziurnu!”. Era molto strano, appena attraversato il fiume la natura del terreno, cambiava totalmente. Mentre di là nella zona di San Giorgio non c’èra un sasso a pagarlo oro, al di quà del fiume la terra era tutta sassosa; ad ogni cento metri si presentavano, davanti ai nostri occhi, macigni di svariati quintali che dieci uomini insieme non li avrebbero smossi di un centimetro. Stralci di cose di scuola si infiltravano nella mia piccola testolina, quel paesaggio ben lo adattavo con la storia di Polifemo; me lo immaginavo issare e scaraventarli a valle sui pastori! Tutto quel terreno in ripida salita era pieno di sassi, era come se si fosse disfatta una montagna ed i detriti fossero precipitati tutti a valle; attaccati a quei grossi macigni pendevano grossi ciuffi di capperi assieme ai loro bei fiori molto suggestivi a vedersi in quel paesaggio lunare, l’unico verde che ornava quella campagna così sassosa ed angusta. Ora quello dei muli non era più uno scalpiccio ovattato nel terreno, ma con quella sassaiola gli zoccoli facevano un rumore infernale ed i cani dei dintorni presero ad abbaiare più intensamente, ed io trattenevo il respiro temendo che tutto quel fracasso potesse arrivare all’orecchio del feudatario, visto che dovevamo seminare di nascosto per fare la sorpresa.
Fatto qualche chilometro sempre in ripida salita, la zona ora comincia ad essere pianeggiante ed i sassi cominciano a diradarsi fino a che si scorge una bella vallata bruna; la zona che era stata precedentemente arata dai contadini e che ora aspettava di essere seminata.
Un compagno che lavorava come magazziniere del feudatario ci dette la chiave di un grosso fienile che si trovava proprio nei pressi del terreno occupato a rischio di venire licenziato! Così pernottammo nel granaio che era lunghissimo e rettangolare, quasi privo di finestre; il magazziniere ci aveva preparato qualche giaciglio per la notte e noi ragazzi ci sdraiammo senza proferir parola.
Quel camerone illuminato solo da una flebile luce di candela, rifletteva tutte le nostre ombre sui muri! Ero partita entusiasta come per un’avventura, ma adesso ero lì in apprensione, avevo paura, mille interrogativi si scatenavano dentro la mia piccola testa! Fuori dalla finestra la notte di luna piena investiva tutto il paesaggio circostante e lo faceva sembrare alquanto irreale. Vicino al mio giaciglio sembrava essersi appisolato il sindacalista, che dirigeva la lotta, ma non dormiva affatto perché io sentivo la paglia del giaciglio frusciare continuamente; eravamo tutti vestiti perché era stato deciso che verso la mezzanotte gli uomini avrebbero cominciato la semina, per mettere il feudatario davanti al fatto compiuto. Il sindacalista era un bel ragazzo: molto fine, appena laureato che veniva dalla città ed aveva un fratello che lavorava anche lui per il partito in una zona calda della Sicilia e sempre per via di queste occupazioni terriere era stato arrestato e nel carcere che lo ospitava si era ammalato seriamente, ma il governo non accennava a prendere delle decisioni urgenti per liberare questi detenuti politici. Tra i nomi che ricordo c’è Pio La Torre e Filippo Tornambè, due brillanti laureati molto amici di Maria e Mariano che sono stati più volte ospiti in casa mia. Tanti giovani dediti alla causa sociale e con quanta passione!
Si battevano a capofitto nella mischia senza scopi di lucro, dal momento che il partito non aveva soldi e dava loro pochissimi soldini. Se non fosse stato per le famiglie che li mantenevano ancora dopo laureati, come faceva mio padre con i miei fratelli sarebbero morti di fame! Verso mezzanotte i braccianti si caricarono le bisacce con le sementi del grano ed uscirono fuori a seminare; avevano tutti un gran batticuore e la sensazione di essere in guerra. Nessuno diceva una parola, guardai fuori dalla finestra e vidi i contadini muti camminare in fila indiana dirigersi verso la zona da seminare. Sembrava che la luna fosse complice e quella sera brillasse più del solito per dare manforte alla nostra lotta! Il sindacalista andò fuori con gli uomini, mia sorella Maria rimase lì con noi nel camerone a tenere buone le donne che erano giustamente in pena per i loro uomini. Non c’èra di che stare allegri; c’èra stata di recente la strage di Portella della Ginestra, laddove come tutti sanno, mentre i contadini erano impegnati in una civile conquista per la terra, con tanto di legge che lo prevedeva, erano stati freddamente trucidati dal famoso bandito Giuliano, usato dalla politica di destra, addirittura se non ricordo male, erano stati mossi anche gli Americani per far fallire le occupazioni e tutta la politica di sinistra. Mi appisolai un po’ angosciata, adesso che Pà era là fuori, avevo paura che potesse accadergli qualcosa di spiacevole. Il parlottare un po’ convulso delle donne che si stavano preparando per andare a dare il cambio ai loro uomini mi svegliò; era quasi giorno, la luna era sfocata aveva perso tutto il suo chiarore notturno per lasciar posto alla potente luce del giorno. Gli uomini, stanchi della notte di semina, entrarono nel camerone e si sedettero a riposare sui giacigli, bevvero del latte caldo e caffè d’orzo! Questo passava il convento!
Dopo un po’ anche noi ragazzi confortati dalla luce dell’alba, uscimmo fuori con delle sacchine piene di sementi da portare all’anto, alle donne che dovevano finire di seminare. Il sole stava nascendo rigoglioso, sembrava una mattinata estiva, il cielo era limpido e terso anche se si avvertiva già l’aria fresca dell’autunno. Le donne sostituivano egregiamente i loro uomini, erano tutte disposte con ordine e seminavano a sprio l’enorme appezzamento di terreno arato di fresco che rivoltato dagli aratri con i muli era diventato nero come la pece! Quando dall’altura che dominava la vallata occupata si presentò ai nostri occhi un notevole colpo di scena! Come in una sequenza di un film di guerra, cominciammo a vedere spuntare decine di camionette con almeno un centinaio di carabinieri che si disposero tutti intorno a noi accerchiandoci.
Fu il panico. Le donne erano sgomente! “Oh Dio” disse una di loro: “adesso ci sparano addosso com’è successo a Portella della Ginestra!”. “Compagni” gridarono i sindacalisti avvampando! “Non drammatizziamo! State calme, i carabinieri non sono i banditi! Sentiremo le loro ragioni e noi esporremo le nostre! Nella peggiore delle ipotesi, potranno arrestarci, non ammazzarci!”.
All’ipotesi dell‘arresto venne fuori un’altro coro di “Oh Dio!”.
Poi tutte mute. I carabinieri avanzavano con il fucile spianato, Maria non sapeva che pesci prendere; la vidi un po’ incerta sul da farsi ma non perse il suo auto controllo di sempre; mi guardò dritta negli occhi come a casa quando perentoria mi ordinava qualcosa da fare, capii al volo cosa voleva e mentre il cerchio dei carabinieri incalzava sulle donne spaventate a morte e pallide come stracci, scivolai via e corsi, corsi con quanto fiato avevo in gola verso il fienile dove gli uomini si stavano rifocillando. Pà, appena mi vide sconvolta e trafelata ebbe un moto di paura. “Cosa e successo? Si è fatto male qualcuno? “No Pa”, dissi io ormai tra i singhiozzi; “sono arrivati i carabinieri armati!”. Ci vogliono arrestare tutti!”. Sentii Pà sfoderare tutta la litania dei santi al contrario; era la sua unica debolezza e non sapeva proprio trattenersi! Vidi il giovane sindacalista che ancora stava sorbendo il suo caffè d’orzo impallidire e contrarre la mascella. Un ragazzotto corse a prendere il suo fucile da caccia che aveva con se per dare la caccia ai conigli selvatici ed imbracciandolo disse con aria di sfida: “Ci difenderemo!”. Il sindacalista alzò il braccio e disse: “Calma ragazzo! Frena la tua irruenza! Il fucile risparmialo la tua caccia ai conigli selvatici! Noi non siamo la mafia che risolve i suoi problemi con i fucili a canne mozze, noi dobbiamo riuscire nella nostra lotta, con il cervello, se lo faremo con la lupara saremo esattamente ai loro livelli!”. In men che non si dica gli uomini uscirono come una furia dal fienile imbracciando chi la zappa chi il tridente, dirigendosi a corsa verso la vallata occupata. Io rimasi un po’ indietro con pà che guardandomi con aria pensierosa mi disse: “Adesso te ne stai qui nel fienile buona buona almeno sei fuori pericolo; io non volli saperne di restare sola nel fienile, ero terrorizzata di cosa sarebbe successo con quei carabinieri”. Pà commentò amaro: “Non è stata una buona idea portare qui dei ragazzi! Ma ormai siamo in ballo e dobbiamo ballare; sarà quel che Dio vorrà! Se ti succede qualcosa, tua madre non me lo perdonerà mai!”.
A passi svelti arrivammo in cima all’altura che dominava la vallata occupata. E come in un gioco vedemmo formarsi intorno ai carabinieri che a loro volta accerchiavano le donne che ora stavano li ferme impietrite nel loro dramma. Un terzo cerchio composto dai contadini armati da zappe e forconi, i contadini erano in numero molto maggiore dei carabinieri e se certo loro avessero deciso di sparare su di noi sarebbe successo una carneficina. Il sole era oramai alto, le bandiere rosse issate tutto intorno al terreno occupato, sventolavano gagliarde sfidando il nemico; i contadini cominciarono ad intonare l’internazionale in tono di sfida. Maria e l’altro sindacalista mossero incontro al maresciallo dei carabinieri per contattarlo, l’uomo era abbastanza ragionevole, ma il militare aveva ordini precisi di arresto per tutti. Intanto i contadini si stavano stringendo intorno ai carabinieri e il maresciallo si guardava intorno preoccupato, con gli animi così riscaldati poteva succedere di tutto. Maria e l’altro sindacalista si offrirono per farsi arrestare, il militare accettò lasciando tutti i contadini liberi, ma con un mandato di comparizione per l’indomani per tutti i partecipanti. Maria ed il suo collega salirono sulla camionetta con il maresciallo e rivolgendosi ai contadini dissero loro: “Compagni state sereni, succeda quel che succeda, oggi scadeva la concessione governativa che vi dava il diritto di seminare questa terra! Voi l’avete fatto appena in tempo! Ora la terra è vostra! C’è l’abbiamo fatta!”. La camionetta partì e noi tutti con il nodo alla gola intonammo: “Bandiera rossa la trionferà!” E subito dopo “Fischia il vento, urla la bufera! Scarpe rotte eppur bisogna andar, per conquistare la bella primavera! In cui sorge il sol dell’avvenir ecc,ecc”. Anche se c’èra stato l’arresto ed io ero molto preoccupata, in special modo per mia sorella, eravamo però contenti di averla fatta in barba al feudatario e di aver vinto se non la guerra, almeno una piccola battaglia! L’indomani, i contadini si presentarono in caserma pensando che si trattasse di una semplice formalità, ma non fu così. Un grosso cellulare caricò gli uomini in stato di arresto e li portò a Polizzi Generosa dove erano le carceri.
Lì per lì fu un dramma, le donne erano preoccupate per i loro uomini e per tutto un complesso di cose a cui non erano abituate.
Il terzo giorno fu organizzato dal partito uno sciopero sotto le carceri a cui partecipò tutta la popolazione. Era tutto a posto, la legge era con i contadini, si trattava solo di farla applicare. Era solo l’ultimo colpo di coda di certi politicanti che sostenevano i feudatari dell’isola, che da sempre l’hanno fatta da padroni, abituati come grossi pachidermi a schiacciare tutto il povero mondo contadino, a farsi adorare dai viddani, a farsi baciare le mani e a farsi chiamare Vossignoria. Il padrone non riesce ad accettare che il viddano si debba ribellare a questo stato di cose quindi di conseguenza, il rifiuto dei feudatari e della politica che li appoggiava a riconoscere la legge del momento. Alla fine del massiccio sciopero, i contadini vennero liberati e dopo qualche settimana furono rilasciati anche mia sorella, Maria Domina ed il suo collega; così finì la brutta avventura dell’occupazione delle terre in Sicilia e rimase concreta la realtà della terra ai contadini! Quella terra brulla che serviva solo per pascolo, veniva adesso rimpiazzata da una verde vallata.
Siamo nel mese di gennaio, quel grano seminato in una notte di luna, quella semina così sofferta, dà ora i suoi frutti; un’erbetta fitta fitta è nata. I contadini sono felici; è come se fosse nata loro una piccola creatura che dovranno accudire amorosamente nei prossimi mesi. Siamo in primavera, il grano e tutte le altre colture seminate fave, ceci, lenticchie, crescono rigogliose. Quella terra vergine, perché da sempre adibita a pascolo, con tutto il concime che da esso ne viene era come esplosa per realizzare se stessa. In una zona come una conca piantammo una favolosa distesa di vigneti e alberi da frutta; un vero miracolo, mi sembrava davvero la terra promessa, decantata da mia madre! La scenografia del posto era totalmente cambiata e chi conosceva quel posto, dimenticato da Dio, ora non lo riconosceva più, in quel meraviglioso mare verde! Quell’anno pà trascurò la tenuta di San Giorgio per dedicarsi quasi interamente alla nuova terra conquistata. Si creò ad Alberì un piccolo villaggio di pagghiari. Erano una specie di trulli, con il basamento fatto di pietre e fango fino ad altezza d’uomo e la parte superiore costruita in modo robusto da lunghi arbusti ricoperti poi di un tipo di lunga paglia e dalla forma di un lunghissimo cono. L’interno del pagghiaro si riduceva ad una solo ambiente senza finestre con una sola povera porta, ma resisteva bene alle intemperie d’inverno e teneva fresco d’estate. E poi le donne si armavano di fantasia e ne ricavavano un ambiente caldo ed accogliente e pieno di colore; a me piccola sembravano le palafitte che studiavo alle elementari e mi sarebbe tanto piaciuto tanto averne uno, ma noi avevamo la casa di san Giorgio che distava da Alberì solo dieci minuti con il cavallo quindi noi pernottavamo là. La comunità della cooperativa aveva costruito in mezzo ai pagghiari, una piccola casetta per il forno comune e le donne a turno vi andavano a fare il pane; la stanzetta era sempre piena di voci gaie ed indaffarate ed io naturalmente gli stavo sempre tra i piedi con gli altri figli dei coloni. Le donne appena sfornavano il pane, ne tagliavano uno a metà, ci versavano sopra un po’ di olio e un po’ di formaggio della stalla cooperativa, lo richiudevano e ce ne davano un pezzo per uno per toglierci dai piedi. Lo sciame di bambini usciva dal forno e si apprestava ad inoltrarsi in quel mare di vigneti per finire la merenda con delle scorpacciate di frutta acerba; per noi piccoli abituati a quel terribile caldo era come andare al giardino inglese di Palermo; ci sedevamo in un fresco canneto con i piedi nudi in un fresco ruscello e ci raccontavamo storie vere e storie inventate.
Un altro anno è passato
Un altro anno è passato in fretta, siamo ancora una volta alle soglie dell’estate; è ormai tempo che la famiglia chiuda la casa di Castellana per salpare in campagna per quattro lunghi mesi, come tutti gli anni. Ma quest’anno Pà ci risparmiò. La piccola Maria Teresa andava ormai a scuola e per le vacanze aveva bisogno di essere seguita per i compiti. Povera Teresa, non era stata fortunata come me.
A lei era toccata una maestra terribile; la povera donna, ormai credo quasi ottantenne, un po’ zoppa e un po’ fuori di testa, non aveva più i requisiti per dedicarsi ad una numerosa scolaresca di piccolini, bisognosi di cure amorose. La maestra Pollara portava sempre un bastone per appoggiarsi perché oramai poveretta non c’è la faceva più a reggersi in piedi. Però era molto curata nel vestire; ricordo ancora i suoi chemisier di seta a fondo nero con dei fiorellini bianchi, con rigorose cintoline di pelle lucida nera. I suoi capelli lindi e bianchissimi attraversati da qualche onda, erano raccolti dietro la nuca e fermati con un pettinicchio. La maestra Pollara, sempre con il suo bastone tra le mani, perché senza non ce l’avrebbe fatta a fare un passo, terrorizzava i bambini specie quelli che non riuscivano ad apprendere come avrebbero dovuto; gli dava di quelle sonore tirate d’orecchi da fargliele diventare paonazze per delle ore.
La Piccola Maria Teresa era così bella, una banana di riccioli biondi le ricadevano invariabilmente sulla fronte; d’inverno con il suo cappottino in pannolenci viola, rifinito in velluto con il cappellino uguale a bambola da cui uscivano i suoi morbidi riccioli, un paio di polacchette bianche, sembrava davvero una bambola; peccato che a lei quell’abbigliamento non piaceva affatto e non le sembrava vero di essere a casa per strapparsi tutta quella roba di dosso e la buttava via piangendo calde lacrime; naturalmente da piccoli si desidera vestire uguale agli altri bambini, ma tutto quel lusso non veniva affatto dalla mia famiglia, no davvero! Il tutto proveniva da un fantomatico zio della mamma che gentilmente ce li mandava dall’America, meno male che le mie sorelle più grandi apprezzavano eccome! Ma rimaniamo in tema di scuola; una mattina appunto Teresa andò regolarmente a scuola e mia madre non vedendola tornare a casa per la solita ora di chiusura, tutta in apprensione si precipitò a vedere cos’era successo. La Pollara era andata a casa ed aveva chiuso in classe una diecina di bambine che non avevano saputo la lezione! Le bambine piangevano disperate, della bidella neanche l’ombra, i genitori avevano dovuto buttare giù la porta per liberarle! La mattina dopo Teresa si alzò e dichiarò: “Io a scola unci vaiu chiù pirchì a maistra mi scodda aricchi e mi fa fari la piscia nelle mutandine”. Infatti la povera piccola Teresa e come lei anche le altre bambine, venivano a casa con le mutandine zuppe di pipì, perchè la Pollara, se non sapevano la lezione non le mandava a gabinetto.
Io dalla mia classe tremavo per la piccola Teresa nel sentire perennemente sbattere il suo bastone sulla cattedra. Mi consolavo e guardavo beata la mia maestra Maria Libbrizzi ed assorbivo ingorda la sua straordinaria dolcezza di maestrina dalla penna rossa.
Quindi i miei genitori decisero di lasciarci a casa con mia sorella Maria perché doveva fermarsi a Castellana per la campagna elettorale. Se gli scorsi anni mi fosse toccata una tale fortuna di starmene tutta l’estate a Castellana avrei certamente fatto salti di gioia, ma quell’anno fui molto delusa, mi ero ripromessa delle gioiose scorribande nella nuova cooperativa dei compagni; non avrei rivisto quella verde vallata di vigneti, stare lì dentro quella frescura per delle ore appiattita contro un albero o una vite trattenendo anche il respiro per spiare una madre che andava e veniva dal suo nido per rifocillare i suoi uccellini che stavano lì tutti nudi con il becco sempre spalancato, come dannati che non si saziavano mai. Non avrei potuto godere della cooperativa rossa, della numerosa compagnia di ragazzi che avevo conosciuto la scorsa estate; tutti figli dei compagni, che avevano occupato il feudo. Ne ricordo una in particolare, Pina figlia di Momò a Cincurana, una simpatica compagna che aiutava sovente mia sorella Maria nelle riunioni di caseggiato, nel tesseramento dell’Udi ecc. Pina era una bambina tutta pepe direi che anche se aveva due anni meno di me fosse anche più sveglia. Insieme avevamo raccolto duemila firme per la pace nel Vietnam e ci eravamo meritate due biglietti al cinema Averna che a quel tempo era solo all’aperto e davano la prima operetta della nostra vita, che l’avvocato Vincenzo Sabatino, che a quel tempo gravitava nel partito, ci aveva offerto come premio. La vita mi appariva bella ed interessante in tutte le sue sfaccettature, se però pensavo a mia madre ed alle sue terribili paranoie ero ben felice di starmene un po’ lontano da lei. Era un po’ di tempo che non mi assillava più con le sue oscure minacce; era un po’ di tempo che il suo viso non si contraeva in quella terribile maschera di dolore, senza un plausibile motivo apparente. Ma forse era solo perché in casa c’era mia sorella Maria; prima con l’occupazione, poi con la campagna elettorale ed era solo lei che temeva, perché Maria avendo una forte personalità, non le permetteva debolezze, come il piangere per cose già successe e rimuginarvi sopra all’infinito. Anche Antonietta non la temeva, anche se era ancora una ragazzina ed era ancora sotto il suo giogo. Sentivo a volte su di me il suo sguardo grave e pesante, avevo la sensazione che io e lei fossimo diventate due nemiche, sentivo che non sarebbe finita lì, sarebbe ritornata alla carica!
Mi ero ripromessa di parlarne con pà; mi avrebbe certamente consolato con la sua dolcezza, ma preferii tenere per me quel triste segreto, tenere per me quei neri momenti che la mamma mi infliggeva per qualcosa di oscuro che era entrato a far parte di quella sconosciuta che ormai era diventata mia madre. Mi ero tenuta dentro il mio triste segreto, sperando che esso un bel giorno si dissolvesse ridandomi la mia mamma; speravo tanto di ammalarmi per avere almeno in quelle occasioni le sue carezze, le sue premure, i suoi baci. Fui quindi contenta quando lei partì con pà per la campagna, portando con se solo mia sorella Antonietta che era ormai un valido aiuto e lasciando a casa me e Maria Teresa con Maria. Fu un’estate felice, sembrava che ormai mia madre mi togliesse la gioia di vivere, senza di lei mi sentivo libera come l’aria; furono mesi pieni e molto interessanti, la mia casa era sempre piena di compagni che si fermavano a pranzo da noi dopo aver fatto un comizio o una conferenza. Influenzata da quell’aria politica che in casa si respirava, mi immergevo vicino a mia sorella dentro a quelle riunioni dove si affrontavano problemi politici di ogni genere. Le donne accorrevano ora più spontanee, dopo la lotta per la terra di Alberì si erano fatte una mentalità un po’ più aperta, erano più disponibili a partecipare alla politica visto che questa finalmente, aveva dato loro dei risultati concreti, come un pezzo di terra da lavorare. Dalla rossa Emilia, dalla rossa Toscana giungeva l’eco che i compagni andavano forte: “Vie nuove”, “L’unità”, “Noi donne” riportavano i successi registrati in tutta Italia. Entravano a far parte nelle nostre file i più bei nomi della cultura dello spettacolo, dell’arte e così anche nella nostra piccola Castellana, compassata borghese e clericale per eccellenza, sembra finalmente muoversi qualcosa verso sinistra. I pronostici sono buoni, la campagna elettorale è rovente, i comizi si susseguono ed alla fine del discorso, si proiettano delle pellicole che testimoniano le lotte sindacali che i compagni fanno al nord, oppure qualche buon film sui partigiani. Tutto va avanti senza esclusione di colpi da parte della opposizione che passa per il paese con un camioncino e distribuisce “U cuoppo a pasta”, pacchi di pasta da cinque chili in cambio di voti! Finalmente la fine della campagna elettorale, le votazioni!
Si assiste a delle vere comiche: poveri centenari decrepiti, quasi moribondi tirati fuori dai loro letti pur di non perdere un voto!
La concorrenza, abituata da sempre a comandare, sente mancargli il terreno sotto ai piedi! Siamo alla fine. Io sono sempre alle costole di mia sorella Maria che attivissima, va su e giù per Castellana come una pazza. Assistiamo allo sfoglio delle schede e tutte le volte che nel collegio tirano fuori una scheda con la faccia di Garibaldi, tutti esultiamo e alla fine è vittoria. Finalmente dopo anni di DC, il comune di Castellana è rosso! Tutta la notte sono festeggiamenti, i compagni esultano, io sfinita mi addormento sopra due seggiole alla Camera del Lavoro, mentre loro sbicchierano alla grande intonando tutti i loro inni facendo la satira ai clericali! Dopo alcune settimane, c’è a Palermo un importante convegno del Partito e Maria per premiare le donne del nuovo movimento Udi, le fà partecipare. Maria spesso mi prometteva che mi avrebbe portato a Palermo, avevo quasi dieci anni e non conoscevo ancora la nostra provincia, ma una volta era tutto così lontano ed inafferrabile: questa finalmente era la buona occasione, mi comprò un paio di scarpe “ni Iachina” nell’unico negozio di scarpe che c’era all’epoca, mi confezionò in quattro e quattrotto un fresco vestitino di percalle bianco che tanto amavo indossare; Maria era una sartina in gamba, la mamma da ragazzina l’aveva mandata ad imparare na za Tanuzza e quindi prima di andare a lavorare per il partito, sfornava abiti per tutta la famiglia.
Palermo
Partimmo una mattina, in una corriera tutta per noi, alla volta di Palermo; ero salita solo due volte in corriera e solo per brevi tratti, per andare nella nostra campagna di San Giorgio e per Polizzi che mi pare di ricordare dista da Castellana solo una mezzora.
Quindi questa era la mia grande avventura, la prima vera uscita da casa, circa cento chilometri, mi pare che grossomodo questa sia la distanza da Castellana, paese delle Madonie, dalla città di Palermo. Distanza fatale per gli innumerevoli malati gravi che partivano da Castellana con l’unico taxi esistente, quello di Michele Nantista per affrontare un drammatico viaggio che quasi mai arrivava alla fine: a quel tempo si moriva anche di un’appendicite prima di arrivare in ospedale. Dalla corriera guardavo avida dai finestrini tutto quello che vedevo per la prima volta, ma non c’èra gran che da vedere dato che la corriera toccò solo Polizzi Generosa e poi era tutta aperta campagna ed io di campagna ne avevo piene le tasche; si vedeva in lontananza qualche paesotto arroccato quà e là, ma la corriera sfrecciava via veloce, mi sentivo una gioia incontenibile ma che non volevo far trapelare, non volevo far vedere a tutte quelle ragazze adulte che mi muovevo per la prima volta. Ero la sola bambina e quindi tutte le compagne, cercavano di tenermi compagnia e nello stesso tempo spiavano le mie emozioni, di vedere posti nuovi per la prima volta, ma io non volevo tradire le mie emozioni, ero tutta d’un pezzo, non facevo una grinza. Quando arrivammo a Termini Imerese, vidi il mare! Il mare per la prima volta! Un’isolana che in pratica e circondata dal mare dover aspettare fino a circa dieci anni per vederlo in faccia! Ma era il tempo delle grandi distanze, migliaia e migliaia di uomini nascevano e morivano senza mai essersi mossi dal loro paese. Svoltando la corriera si mise a costeggiare il mare. Sentii un violento tuffo al cuore: vidi una massa enorme di acqua, lì davanti a noi; quel giorno il mare era molto agitato, onde gigantesche fluttuavano quasi addosso alla corriera, mi guardai intorno impaurita per controllare le reazioni degli altri, ma vidi con stupore che le ragazze noncuranti del mare scherzavano e ridevano. Respirai forte e lo guardai ancora con meno paura; ora la corriera seguendo la strada si scostava dalla riva e me lo faceva sembrare meno minaccioso. Tutta quella enorme massa d’acqua mi aveva procurato un’emozione incredibile, avevo visto il mare solo nella cartina geografica e non avevo calcolato una simile grandezza!
Mi guardai in giro con circospezione, nessuno si era accorto della mia grande emozione e tirai un sospiro di sollievo. Ma in quel momento mia sorella Maria che era rimasta in fondo alla corriera a discutere con le ragazze mi venne vicino e mi chiese forte: “Allora Lilly, ti piace il mare?”. Le diedi un’occhiataccia cattiva per essere stata tradita e mentii spudoratamente dicendo: “Non è la prima volta che lo vedo!”. Mia sorella Maria rimase interdetta, sapeva benissimo che era la prima volta che uscivo di casa, ma io insistetti: “Quando tu eri a Como alla scuola di Partito io sono venuta a Palermo con la zia Angelina!”.
Parlai forte, ero vicino all’autista che era un cittadino e non volevo che mi considerasse una provinciale, quali in effetti ero.
Già a quell’età ero una vanitosa e una bugiarda patentata, mia madre per questo andava su tutte le furie, ma non desistevo, primo perché con il suo severo carattere per farla franca dovevo pur inventare qualcosa e poi la mia esuberante fantasia così si realizzava modellando le cose come avrei voluto che fossero e non come erano veramente. Arrivammo finalmente in città. Palermo!
Mi parve bellissima: era la prima volta che vedevo una città e specialmente per chi come me era vissuto solo a Castellana, paese grazioso e con delle pretese, ma fondamentalmente un centro agricolo privo di qualsiasi attrattiva se si toglieva i due muri che allora formavano il cinema all’aperto Averna. La città mi apparve come il più ambizioso dei miei sogni, ero paralizzata nel vedere tutti quei bei palazzi, monumenti teatri, interminabili strade fatte da interminabili vetrine piene di ogni ben di Dio. Vetrine intere zeppe di cassate, pasticciotti, cannoli siciliani, cestini di frutta marzapane in variopinti colori, tutto in bella mostra di se. Già allora Palermo era piena di automobili che sfrecciavano a destra e a manca caoticamente e suonando ripetutamente il clacson. Mia sorella mi prese per la mano ed io stetti lì buona buona altro che fare la furba, c’era da perdersi in quella giungla, altro che Castellana in cui mi sentivo padrona del paese che conoscevo e che battevo palmo a palmo tutti i santi giorni. In ogni angolo della strada vi era un ragazzo che faceva contrabbando di sigarette. La prima impressione quando arrivi a Palermo è una nota di colore locale che è caratteristica della nostra città che ti arriva forte al naso. Un odore di cibo cotto che si vende in certe zone per le strade che con dei rudimentali fornelli arrostiscono cipolle, peperoni, melanzane, pane cu a mieusa, polpo bollito: ad una pizzeria Maria mi compra pane e panielli fatta con la farina di ceci, deliziosa. Arriviamo nella sala dove sta parlando l’onorevole Nilde Iotti; a me sembra una donna molto bella, le ragazze tra loro sussurrano: “Quella bella signora è la donna del capo, Togliatti!”. Non riesco a decifrare bene cosa vuol dire la donna di tizio o caio. La sala del congresso è piena di striscioni e di bandiere rosse. Troneggiano i manifesti di Stalin, di Lenin, Marx, di Gramsci e Togliatti. Quando finisce di parlare la Iotti è la volta di Girolamo Li Causi, un oratore trascinante. Maria è di casa, conosce tutti, stringe la mano ai colleghi e mi presenta loro come una piccola compagna che ha all’attivo cinquemila firme per la pace e questo fa si che io mi dia arie da addetta ai lavori e da sindacalista consumata. Vivendo in questo ambiente, questi erano diventati i miei punti di riferimento, i miei idoli, invece di attori e cantanti, non che non mi piacessero, anzi stavo incollata all’unica radio che possedevamo, ma è ovvio che senza televisione, il prodotto era meno reclamizzato.
Il congresso si protrae fino a sera, i leader del partito si alternano in difficili arringhe che io non riesco a decifrare, ma forse proprio perché non li capisco ne sono così presa. Usciamo fuori che già le luci della città sono accese, così piena di luci è ancora più superba! Cosa darei per starmene qualche giorno li con mia sorella!
Attraversando via Macqueda, troviamo un negozio di bambole, le mie gambe si inchiodano davanti alla vetrina, come ipnotizzata da una bambola di sogno; incollo la mia faccia contro la vetrina e guardo con infinita tristezza quella bambola che desidero da sempre e che nessuno mai si decide a comprarmi; un collega di mia sorella fa giustamente notare che il prezzo della bambola era di molto superiore al loro stipendio di un mese! Naturalmente quando lo prendevano! Perché non era raro che a volte saltassero, era la norma! Il partito non aveva soldi ed i senatori si tassavano di mezzo stipendio per pagare i sindacalisti; questa era la situazione nel PCI.
Maria mi venne vicino, mi prese la mano e piano, piano mi disse: “Se vuoi posso comprarti quella piccolina laggiù nell’angolo della vetrina”, feci di no con la testa, avevo intorno le amiche di mia sorella e non volevo far vedere che ero una bambina capricciosa. Mia sorella prese a consolarmi: “Un giorno ti comprerò tante di quelle bambole che dovrai dire basta! Intanto ti sto per fare un regalo che ti assicuro è più grande della bambola. Ho deciso di tenerti con me qui a Palermo per una settimana!”
Fu davvero un bel regalo, non stavo nella pelle dalla gioia, buttai le braccia al collo a mia sorella e la baciai. Maria era come mia madre, non amava essere sbaciucchiata e tutte le volte che lo facevo mi chiamava “ruffiana!” Non mi piaceva quell’appellativo, ma Maria me lo dava in senso buono, affettuoso! La delusione della bambola era già svanita, ed io assaporavo già in anticipo il mio primo soggiorno in città. La corriera ripartì con le ragazze, alla volta di Castellana ed io mi sentii privilegiata nei loro confronti perché se ne tornavano quatte quatte al paesello, anche se quel paesello era la mia dolce Castellana. Arrivammo a casa da mia sorella Maria che abitava a pensione da due anziane signorine, molto care e molto premurose. La sera prendemmo solo del tè con dei buoni cantuccini; ero stanchissima, il viaggio, il congresso; ero esausta. Entrai nel lettino odoroso di pulito e mi addormentai subito facendo un lungo sonno fino al mattino. Svegliata dal fracasso della città, mi affacciai alla finestra quasi incredula di un simile via vai, già alle prime ore del mattino, abituata al silenzio ovattato del mio paese. Tutta quell’agitazione di correre ai tram per andare al lavoro, di correre freneticamente in ogni dove mi lasciava perplessa e sconcertata. Guardare dal terzo piano l’accalcamento di quel via vai, mi faceva ricordare la lunga fila che esce da un formicaio, abbondantemente sperimentato nella campagna di San Giorgio. Notavo però una certa differenza; mentre l’ordinata fila di laboriose formichine si consultavano ad ogni attimo tra loro fermandosi per una frazione di secondo e sfiorandosi le loro piccole antennine, questi cosiddetti cittadini cominciavano col non piacermi; andavano tutti svelti impettiti, senza neanche guardarsi, né salutarsi. Ma a distogliermi dalle mie osservazioni una voce: “Vieni piccolissima, il bagno e pronto!”. E poi rispose un’altra voce: “Presto, presto ti dobbiamo far visitare tutta Palermo!” Mi assalirono di baci, erano le due signorine sorelle ultrasettantenni, dove viveva a pensione da qualche anno mia sorella; un forte odore di tabacco investì le mie narici, le due care signorine fumavano come turche le alfa e le nazionali senza filtro.
Mi colpirono le loro dita tutte bruciacchiate dalla nicotina, in ogni angolo vi era un portacenere con dei mozziconi di sigarette; “Ecco!”, pensai tra me, “sono queste due signorine che hanno insegnato mia sorella a fumare!”. Visto che prima di venire in federazione non fumava!
In verità le signorine erano davvero molto care, nel modi in cui mi coccolavano sembrava che non avessero mai visto una bambina e così era; erano due sorelle ed un fratello tutti single. Avevano una casa tutta zeppa di mobili antichi; nel soggiorno troneggiava un enorme orologio a pendolo che era appartenuto alla loro trisavola, una nobildonna; non potei fare a meno di notare la differenza da casa mia paragonata a questa era decisamente disadorna; l’unico pezzo buono, un tavolo rotondo in noce scuro che la mamma era riuscita a comprare da una benestante dislocata in città. Andammo in avanscoperta della città: Palermo era davvero bella! Prendemmo la carrozzella per visitarla meglio ed ora Lidia, ora Elvira mi facevano da Cicerone. Palazzo dei Normanni, Teatro Massimo, La favorita, La palazzina cinese, il superbo teatro Politeama, Il Santuario di Santa Rosalia patrona di Palermo, allorché fece cessare una pestilenza che stava divorando la città, Piazza Pretoria detta volgarmente piazza vergogna, perché costruita da una serie di statue nude, vi è ammezzo una stupenda fontana del 500, tutto intorno cavalli marini, sirene, delfini, putti, divinità pagane ma soprattutto figure femminili che hanno nasi ed orecchie mozzati. Chiesi meravigliata il perché di questo fatto a Lidia e sua sorella mi risposero quasi imbarazzate che Federico Secondo aveva stabilito che alle donne infedeli venissero tagliati naso ed orecchie. In un certo periodo che i Palermitani furono in lotta con i messinesi per certi titoli, questi ultimi volendo sfregiare i palermitani dissero loro che le loro donne erano adultere, quindi infedeli e venendo furtivamente di notte nella città, tagliarono simbolicamente nasi ed orecchi alle statue femminili di piazza Pretoria. Sono entusiasta della carrozzella trainata da un bel cavallo tutto agghindato che ci fa ammirare più agevolmente Palermo. Elvira e Lidia hanno un parasole per uno, sono molto buffe, a volte sembrano due bambine e si punzecchiano per un nonnulla, ma ambedue sono coalizzate perché io mi diverta il più possibile. “Piccolissima, ti piaci Paliemmu?”. Oh se mi piaceva! Mi era sfiorata per la testa un’idea improvvisa e sibillina. Mi sono detta queste due sono sole al mondo e se mi adottassero?
Non volevo più stare con la mamma! Le signorine parvero indovinare i pensieri che mi passavano per la testa e si affrettarono a dirmi: “se non fossimo troppo vecchie ti terremo qui in città con noi!”. Ma ecco Ruggero Settimo, il salotto della città, la via della passeggiata dappertutto è un interscarsi di stupende costruzioni moderne a superbe opere d’arte arabe, fenice, bizantine; rimango abbagliata dalle preziosità delle cattedrali, fatte tutte d’oro. Ma nei vicoli intravedo il buio e la miseria nera dei più umili, quindi anche in città ci sono i poveri, forse anche più poveri che nei paesi. Ma appena la carrozzella gira l’angolo, io mi dimentico dei poveri vicoli e rimango ancora una volta abbagliata dalle superbe chiese e palazzi barocchi. Ecco ora la chiesa della Catena dove Elvira mi racconta che una credenza popolare vuole che davanti a questa chiesa un gruppo di condannati a morte si salva da sicura condanna, vedendosi miracolosamente sciogliersi le proprie catene; da qui il nome della chiesa. Ma ecco il Pantheon! Mi dice Lidia che qui Riposano in pace i personaggi più illustri della storia siciliana. Storie di saccheggiatori della nostra bella isola, che mi fanno stare male. Ma girando strada, Palermo mi appare ora come una bellissima fata dal lungo abito azzurro, tempestato da miriadi di brillanti che mi acceca con i suoi bagliori. Al confronto, vedo la mia piccola Castellana, priva di storia, di bei palazzi e la vedo come una timida contadinella con un umile vestitino di percalle a fiorellini. Conosco tante amiche di mia sorella e soprattutto colleghe di lavoro; le compagne vivono un ambiente cameratesco e solidale tra loro; sono ancora più convinta che da grande farò la sindacalista, sono molto presa dal loro mondo che mi affascina sempre più. Conosco l’amica del cuore di Maria, la compagna Giuseppina Zacco che è stata con lei alla scuola di Partito a Como. Giuseppina Zacco è molto fine e delicata, ha un bel fisico e viene da un ambiente un po’ più raffinato del nostro.
La ragazza è figlia di un un’intellettuale, un uomo di valore che appoggia la causa di sinistra ed aiuta anche il sindacalista Pio La Torre negli studi, quando la figlia se ne innamora. Il giovane con l’aiuto morale ed economico del Dottor Zacco riesce a laurearsi e più tardi diventerà Senatore, si sposeranno con Giuseppina, avranno due maschi ed aimè, l’epilogo di questa famiglia sarà funesto, visto che la mafia ucciderà questo brillante senatore che insieme a Rognoni aveva fatto la legge “Rognoni – LaTorre”, che in tutti questi anni ha sequestrato miliardi e miliardi alla mafia. Dopo la morte del marito, Giuseppina diventerà senatrice anche lei.
Ritorno a Castellana
Il tempo vola ed il ritorno al paesello è piuttosto duro; mi consola il fatto che la mamma è ancora in campagna ed io sarò così un po’ tranquilla di non subire le sue paranoie che mi fanno stare tanto male. Una mattina che mi attardo a dormire, vengo svegliata di soprassalto da una voce che grida a squarciagola: “A cu vo accattari cavaddi, scecchi o muli a brivatura c’è a fera”. Era Nino u vanniaturi che era in pratica l’unico mezzo di informazione del paese. L’uomo che indossava sempre una canottiera tutta scollata mettendo in mostra i suoi poderosi muscoli, passava per tutte le strade di Castellana informando tutti quelli che volessero acquistare capi di bestiame, di recarsi presso la brivatura vecchia dove si abbeveravano gli animali e dove appunto si trovava la fiera equina. Decisi di andare a vedere la fiera equina, mi vestii in fretta e dissi a mia sorella che andavo dalla nonna Maria che abitava proprio davanti alla brivatura e che sarei rimasta lì a pranzo; mia sorella trovò strana la cosa dato che nessuno di noi non voleva mai andare a mangiare dalla nonna, perché lei adoperava una tale quantità di peperoncino in tutti i piatti, che era impossibile mangiare. Ma dal balcone della nonna, pieno stracolmo di basilico e di svariati vasi di peperoncino che lei mangiava come caramelle, si poteva assistere allo spettacolo della contrattazione di muli, cavalli, asinelli ed altri animali a quattro zampe, quindi mi sarei adattata ad avere per quel giorno quel fuoco in bocca, che per spegnerlo ci volevano i pompieri. Ma ben presto mi stufavo di tutto e ridiscesi le scale non senza come sempre essermi soffermata un bel po’ sulla prima rampa di scale dove in cima troneggiava la bella testa di cervo bianco con maestose ed intrecciate corna, che il nonno paterno aveva portato dall’America; dopo tanto tempo mi sorge il dubbio che il nonno, essendo superstizioso, l’avesse piazzata lì in cima alle scale apposta contro il malocchio. Il nonno vedendomi sempre ammirarla mi chiese: “Ti piaci? Quannu rituornu in America ti ni puortu una tutta pi tia!”.
Ma sapevo che il nonno Mariano poverino non sarebbe più tornato in America, perché ormai vecchio ed affetto da arterio sclerosi violenta, tanto che la gente del paese aveva preso la brutta abitudine di chiamarlo “U zu Marianu u pazzu”. Mi faceva molto male sentirlo definire pazzo, forse oggi avrebbero detto che ha la depressione. Uscii dalla nonna e mi avviai su per la strada angusta e sconnessa dai troppi zoccoli di equini che vi passavano: quando pioveva la strada sembrava un fiume dai mille rigagnoli in piena, che si buttava tutt’addosso della vecchia brivatura e poi giù, giù per i campi dato che lì era la fine del paese e da quella strada si andava nel posto più triste del paese: il camposanto, dove ognuno di noi aveva i suoi cari morti. Quando arrivai quasi alla fine della vecchia strada della nonna, salii le scale di una casa dove abitava un’adolescente già prosperosa, con una valanga di capelli biondi ondulati come il mare, ero stupita di quel miracolo; fino a poco tempo fa quella era una bimba smilza ed insignificante, ed ora la ragazzina che aveva solo qualche anno più di me, ancheggiava facendo voltare i giovanotti del paese. La ragazza si mise sul balcone a ricamare il corredo ed a sognare un bel biondino che passava e ripassava dalla strada; il ragazzo le mandava con un suo fratellino più piccolo, pizzini d’amore e lei era felice di quel corteggiamento. Ma un sibilo della madre rompe l’incanto di quel corteggiamento richiamandola dabbasso ad aiutarla nel bucato. Così io prendo la via di casa, ma fatto qualche passo mi soffermo come sempre su una casa in cui abita una famiglia che mi affascina. Mi piazzo su di uno scalino di fronte in modo da poter spiare da lì tutti i movimenti di tutti gli elementi e faccio finta di giocare a grastuli. Un vero appostamento come un giornalista che deve fare un servizio fotografico. Guai se lo sapesse mia madre che ho di questi vizi; mi stritolerebbe!
La famiglia è composta da tre figlie femmine, il padre che fa il barbiere e la moglie una bella signora bruna sexy, moderna da classificare almeno con trent’anni di anticipo sui tempi, come del resto tutta la famiglia. La prima figlia Maria, bruna dai capelli lisci e dalla pelle bianchissima come le altre; la seconda Laura, bionda ossigenata, ha una permanente di riccioli, procace e bellissima tipo vamp, con i seni che traboccano dalle camicette scollate. Lidia la più piccola, ma la più alta di statura e bruna dai capelli lisci e porta due lunghe trecce e forse la più fine e la più timida delle sorelle: starei ore ad ammirare i loro movimenti, la vita in quella casa sprizza fuori prepotente e dalle finestre spalancate si può vedere le ragazze che viaggiano per casa in belle sottovesti di pizzo nero. Laura si affaccia con una bocca a cuore scarlatta per stendere un numero imprecisato di mutandine, con quattro donne in casa hai voglia di biancheria intima: tanfate di profumo di colonia arrivano fino a me che aspiro estasiata e smetto di giocare a grastuli per assaporare meglio quello spettacolo di vita quotidiana. Ancora Laura si affaccia per stendere un reggiseno un po’ abbondante, il sole illumina i suoi riccioli d’oro, la sua bella bocca rossa, la sua pelle diafana con le efelidi in quà e là: posso senz’altro classificare Laura la più femminile della famiglia sebbene, le altre componenti della famiglia non scherzino!
Le ragazze ora si litigano un indumento intimo, ora si rincorrono per le scale; le loro voci gioiose esplodono tutto intorno a quella squallida e vecchia strada e tutto quel contesto sembra quasi fuori posto, come delle belle attrici che diano uno spettacolo in un grigio teatrino. Lidia la piccola si fa sulla porta e pettina le sue lunghe trecce; i suoi lineamenti delicati, le sue lunghe gambe, il suo modo di fare elegante, le sue lunghe dita smaltate di rosso che intrecciano con sapienza i suoi capelli neri. La loro radio e a tutto volume e si possono sentire le prime canzoni del festival di San Remo come: “Vola colomba“ di Nilla Pizzi; ancora Laura alla finestra canta seguendo la radio e accenna un passo di danza. La madre fà finta di redarguire le ragazze ma è in effetti solo un atteggiamento, la donna è giovane tanto quanto le figlie, tanto da farle sembrare quattro sorelle; si può senz’altro dire che era uno dei pochi casi del paese dove si respirava un’aria così lieve e già moderna, mille anni luce distanziano questa giovane e moderna signora da mia madre e come lei la maggior parte delle madri di famiglia erano mortificate da grossi grembiuli neri ed eterni foulard neri in testa, legati alla vecchia maniera. Ero così presa dal mio osservatorio, che mi ero completamente dimenticata di andare a casa, l’orologio della chiesa suonava le dodici, ed in quel momento arrivò mia sorella trafelata a prelevarmi dal mio posto di osservazione con due sberle per essermi trattenuta così a lungo ed averla fatta stare molto in pena. Ma non mi arrendo, il giorno dopo mi ritrovo a setacciare un altro angolo di Castellana ancora sconosciuto; imbocco un vicolo con l’intenzione di esplorarlo a fondo, ma fatti pochi passi sono attratta da un crocchio di bambine che sono sedute a circolo sopra un marciapiede e giocano a grastuli con una tale velocità da sembrare giocolieri: rimango ammirata dalla loro bravura e vorrei anch’io cimentarmi con loro, anche perché la posta in gioco è per me molto alta. Vi sono in palio alcune palline di vetro multicolori che mi fanno tanto gola! Ma la più grandicella delle bambine, una brunetta con due trecce tirate ed un musetto a dispettosa mi annunciò con prepotenza: “Tu non giochi con noi pirchì si nica!”. Ci rimasi male, guardavo vogliosa le palline di vetro multicolori che avrei potuto vincere a grastuli ma feci l’indifferente: sapevo di avere l’asso nella manica, sapevo con sicurezza che fra poco mi avrebbero pregato di giocare con loro. Con noncuranza estrassi dalla tasca il mio pacchettino verde con la scritta Brooklyn Chewing Gum che lo zio d’America ci aveva inviato insieme a tante altre belle cose e cominciai a masticare il primo confettino rettangolare bianco, dandomi delle arie; sapevo che in paese non erano ancora in commercio nei negozi, magari qualcuno le aveva portate da Palermo, ma erano in sostanza ancora un’assoluta novità.
Sapevo anche che i bambini non resistevano al fascino della gomma americana. Dopo un attimo infatti, il crocchio delle bambine cambiò atteggiamento nei miei confronti e mi offrirono le palline di vetro in cambio del pacchetto di gomma che io diedi loro di buon grado dato che ne avevo a casa una buona scorta. Ad un tratto sentimmo come il frantumarsi di un vetro e subito dopo un urlo lacerante seguito da gemiti e lamenti; io mi spaventai molto per quei gemiti, ma le bambine che venivano spesso lì a giocare, parevano abituate a quello stato di cose. Di lì a poco passò una ragazzetta sui tredici anni con gli occhi rossi che correva angosciata; “Ecco!” disse una di loro, “và chiamare il prete”. “Perché?”, chiesi io spaventata! “Chi è morto?”, “Nessuno!”, rispose una rossina lentigginosa con un’aria grave come di chi sa tante cose! La ragazza dai capelli rossi smise di giocare a grastuli e cominciò pazientemente a spiegarmi la dolorosa situazione di quella ragazzina e della sua famiglia. Nel frattempo la ragazzina tornava accaldata con il prete, che appena ci vide tutte lì a curiosare ci intimò con voce seria e grave: “Andate bambine, andate a casa vostra!”. Dopo di che salirono velocemente in casa della ragazza. La ragazzina rossa di capelli gesticolando, continuò il suo racconto della povera sfortunata famiglia forestiera, che era venuta da poco ad abitare a Castellana, per vedere se cambiando aria, le crisi maligne della madre di quella ragazzina che dianzi avevamo visto con il prete si attenuassero; infatti i primi tempi era migliorata, ma adesso era al punto di partenza. La visita del prete non era stata affatto gradita dalla donna, perché ora sentivamo sghignazzare fragorosamente; di lì a poco infatti rivedemmo il prete, tutto agitato riprendere la via della canonica ed irritato di trovarci ancora lì ad origliare, ci mandò via in malo modo senza tanti complimenti.
Ma dure ad ubbidire non andammo a casa, ci sedemmo un po’ più in là, in una scalinata ed i racconti paurosi si triplicarono; una ragazzina raccontò di averla vista camminare con le mani, un’altra ancora di aver sentito dire che l’avevano portata a benedire in un famoso santuario della Madonna e che ne era uscita fuori bestemmiando come un’ossessa. Le bambine, eccitate dall’eccezionale spettacolo ne tirarono fuori di tutti i colori: di morti, di fantasmi, di diavoli che potevano trovarsi sotto ogni aspetto, anche sotto la toga di un prete. A questa parola scattò per me una molla: e se le crisi di mia madre fossero di quel tipo? Se quel male oscuro che ormai le prendeva sovente, quella cosa che mi terrorizzava, che mi annientava e che annientava ella stessa, fosse uguale a quello di quella povera donna? Un brivido mi percorse la schiena! Mi alzai di scatto e scappai verso casa; le bambine mi gridarono dietro: “Cosa fai? Perché te ne vai? Ora che ti abbiamo promesso di farti giocare a grastuli! Domani ti aspettiamo, porta le gomme americane!”. Spaventata di quello che poteva essere il male di mia madre, correvo come una pazza, quando arrivai davanti alla bella casa dei signori Elettrico, mastro Mariano era sul suo marciapiede con il banchetto da calzolaio a battere le suole, mi gridò come al solito “Dove corri ciridda,vieni quà!”. E vedendo che come al solito mi arrabbiavo, si divertiva come un matto! Decisamente mancavo di senso dell’ironia, non capivo che lui voleva giocare con me! Io invece continuai la mia corsa e dissi tra me: “Tu hai sempre voglia di prendermi in giro, ma io ho ben altro per la testa!”. Un nodo mi serrava la gola, avevo tanta voglia di piangere, avevo un bisogno disperato di parlare della cosa con qualcuno. Arrivai a casa ma la porta era chiusa, mia sorella doveva essere ancora in riunione, mi ricordai che dovevo raggiungerla e che saremmo andate a casa insieme. Ma non avevo affatto voglia di andare alla Camera del Lavoro; mi sedetti sullo scalino di casa e piansi al terribile pensiero che mi aveva sfiorato. Dopo essermi sfogata, cercai di riordinare le idee e di darmi una calmata, una vocina interna cercava di consolarmi. “No, No, non può essere!”. Cercai di paragonare gli sghignazzi gutturali della donna con i pianti seppur isterici di mia madre, di analizzare gli atteggiamenti di lei quando tornando dalla messa riponeva il suo messale baciandolo come fa il prete sull’altare o come quando si inginocchiava con una devozione così arcana che il suo viso si trasfigurava di dolcezza adorando il suo Dio.
La nonna Cicca dal balcone vedendomi piangere scese e venne a chiedermi se volevo andare in casa loro ad aspettare mia sorella, di solito era un invito accettato al primo colpo, perché si trattava di andare a trovare la loro bella bambola, ma ero troppo sconvolta e non volli andare; nonna Cicca andò in casa e mi portò una fetta di pane con la marmellata di mele cotogne, la mangiai solo per farla felice; com’era dolce quella vecchietta che con un occhio solo sapeva vedere la tristezza di una bambina. Avrei voluto confidarmi con quella dolce e candida vecchietta, ma ero terrorizzata che gli altri sapessero una eventuale bruttura su mia madre che senza saperlo amavo più di ogni altra cosa al mondo. Le riunioni di mia sorella Maria si protrassero più a lungo del solito e quando arrivò mi trovò rannicchiata sopra lo scalino che dormivo. L’esperienza di quel pomeriggio mi aveva angosciata e svilita. Sveglia porcellina, grido mia sorella vedendomi tutto il muso sporco di marmellata.
Come tutte le sere da quando ero nata mia sorella scaldò un pentolone d’acqua, prese la bagnera d’acciaio dato che non avevamo ancora il bagno e mi ci cacciò quasi con violenza! Da quel lato era tremenda direi che era asettica! Io penso che ella non prendesse il ruvido bruschino con il quale pà ci lavava il maiale, le cui setole diventavano candide e le sue carni rosee come quelle di un neonato, dicevo non prendeva quello specifico bruschino solo per rispetto di parentela! Altrimenti mi avrebbe strigliata con quello! Odiavo lavarmi, agognavo di essere grande per non lavarmi più, certo era una reazione alla sua maniacale pulizia derivatole certo dall’accudire quell’esercito che era la mia famiglia. Con scatti nervosi Maria mi strigliava con una grossa spugna senza pietà ed ogni tanto esclamava disgustata: “Ma dove sei andata a ficcarti? Guarda che acqua sporca!”. Tutte le sere quando mi lavava ci scappava sempre il piantino; mi volteggiava dentro la bagnera come fossi uno straccio e mi faceva andare regolarmente piccoli schizzi d’acqua su per le narici, ed ecco che io sentivo il sapore del sapone in bocca e cominciavo a frignare perché mi bruciavano forte anche gli occhi, finito di lavare me cominciava di solito con Teresa ed anche lei naturalmente non voleva saperne di farsi il bagno ed erano guai per tutte e due.
Ma quel giorno ero stranamente calma, il mio pensiero era sempre là nel vicolo, quelle terribili sghignazzate risuonavano ancora nel mio cervello. Mentre Maria mi asciugava accuratamente, perché soffrivo di otite cronica e la minima umidità mi procurava terribili dolori alle orecchie e per cura dovevo mettermi quel noioso mattone rovente, infilato dentro una vecchia calza di lana di pecora, che mi ustionava tutta la parte, mi andarono gli occhi sul grande quadro della Madonna della Catena, in uno dei medaglioni intorno alla Madonna faceva bella mostra di sé Santa Rita da Cascia, vestita da suora che pregava ed in un angolo del medaglione vi era un diavoletto tentatore in calzamaglia nera, con un mantello rosso e tanto di forcone in mano pronto ad infilzare Rita qualora avesse ceduto alla sua tentazione. Mai lo avevo temuto tanto, mai come ora mi appariva nella sua luce blasfema! “Maria”, chiesi a mia sorella, “tu hai paura del diavolo?”, “Ma quale diavolo! Il diavolo non esiste!”, “Si che esiste”, insistetti; anche in chiesa è raffigurato in tanti quadri! “Il diavolo è un’invenzione dei preti per portare più donnette in chiesa! Sciocca!”.
Maria era diventata completamente atea, non credeva più e da qui un atteggiamento cinico verso tutte le forme di religione. “Allora” io sbottai: “non è vero che non esiste! Io oggi ho sentito sghignazzare una donna indiavolata! Ed ho tanta paura che la mamma soffra di quelle cose lì!”.
Mia sorella Maria andò su tutte le furie: “Dove sei stata? Cosa hai sentito? Io ti spedisco in campagna dalla mamma! Giusto appunto domani arriva Pà per le provviste, ti carico sulla mula e ti spedisco a San Giorgio! Hai visto il diavolo, cose e pazzi” commentava mia sorella furibonda. “Tu figghia mia, si pazza e un po’ bugiardella come al solito; quando finirai di dire bugie? E quannu cominci a fariti i fatti tuva? Sei sempre in giro per il paese come un maschiaccio! E’ ora di finirla! D’ora in poi quando io uscirò per andare a fare delle riunioni, tu ti prendi la cartella e vai a studiare da zia Angelina”.
Così per la notte ebbi un nuovo cruccio: la paura di andare a finire tra le grinfie della mamma. Mia sorella era severa quanto la mamma e forse anche più, era capacissima di punirmi. Avrei voluto fornirle le prove concrete di quello che dicevo e tentai l’ultimo timido approccio. “Se non vuoi credere a me, chiedi a Padre Benedetto”, c’era anche lui oggi! Mia sorella a quel nome divenne livida: “Proprio al prete? Tu non sai povera ingenua che i preti ti vogliono far credere quello che loro stessi non credono affatto!”. Avevo fallito ancora una volta, mi ero scordata che tra lei e padre Benedetto si era creato un conflitto insormontabile dovuto al fatto che lei aveva lasciato il posto di catechista per diventare un’infernale e scatenata attivista rossa che gli portava via anime pie dalla chiesa. Era una roccia, non riuscivo a smuoverla, pensai che era meglio non stuzzicarla ancora o davvero mi avrebbe spedito in campagna. Il giorno dopo Maria mi indicò i compiti da fare e mi spedì con la cartella dalla mia cara zia Angelina che abitava quasi davanti alla chiesa in via Calvario. Ero alla fine della mia strada via Armando Casalini proprio quando comincia corso Mazzini, avevo appena attraversato, quando sentii un forte stridio di freni e subito dopo un violentissimo tonfo sordo che mi fece voltare di scatto.
La scena che si presentò davanti agli occhi mi accompagnerà per sempre. Steso lì a terra immobile in mezzo ad una pozza di sangue c’era una testina bionda, un ragazzino che aveva pressappoco la mia età; l’autista, forse un forestiero di passaggio, ha il viso esangue e grida con le mani nei capelli: “Non l’ho visto! Non l’ho visto!”.
L’uomo è disperato! In men che non si dica tutto il paese si riversa all’angolo della mia strada, il dottore lo visita ma il ragazzino è morto, il suo cuore ha cessato di battere. Arriva come un fulmine la madre; la povera donna è disperata quando vede la sua testina bionda afflosciata, lancia un urlo di dolore, si inginocchia, lo chiama, si china sul figlio, raccoglie quella cosa molle che è un corpo privo di quel meraviglioso soffio che si chiama vita, lo stringe a se lo bacia con trasporto. Un rivolo di sangue esce dalle labbra dischiuse del ragazzo, lei lo bacia ancora muta. Io scappo via, non ce la faccio più ad assistere a tanto dolore, il mio primo impatto con la morte è davvero scioccante. La mamma di quel bambino si chiamava Maria, aveva una bella figura alta e asciutta e credo che abitasse verso il campo sportivo di allora e se la memoria non mi inganna mi pare che Maria fosse divisa dal papà di quel dolce bambino, morto nell’incidente all’angolo della mia strada sul corso Mazzini.
In seguito vidi qualche volta la povera madre di quel bambino biondo tutta vestita di nero, avrei voluto abbracciarla per consolarla, tanto mi faceva pena e tenerezza. Dovendo rientrare a Palermo in federazione, mia sorella Maria mi lascia per alcuni giorni in casa di zia Angelina. Sono molto felice, non c’è in tutta Castellana una casa che mi è così cara. La zia non assomiglia affatto alla mamma, ella ha uno spirito giovane, vivo, è una giovane signora piacente, elegante e moderna. C’è tra noi una dolce intesa, qualcosa che ci accomuna in un affetto particolare. Posso finalmente placare quella sete di scale e balconi che con la mia piccola casa a pianterreno non posso soddisfare, sono felice di volare tutto il giorno per i tre piani della casa, affacciandomi ai balconi posso vedere l’intera facciata principale della chiesa che si trova nell’unica piazza di Castellana, ed è talmente vicina che posso sentire, dall’interno della chiesa, il campanello al momento della benedizione. Mio cugino Mario è in seminario a Gibilmanna da anni e si suppone che il ragazzo ormai prenderà i voti: l’altro mio cugino Lillì si trova a Petralia per frequentare le magistrali, in casa c’è solo la mia piccola cuginetta Maria Franca che sembra un bocciolo di rosa, ha i capelli biondi e gli occhi verdi, ha la pelle chiara non come noi tutte scure e ricce; giochiamo a fare le lavandaie dentro la vasca da bagno e mi viene fatto di pensare che se anch’io avessi una bella vasca mi farei sicuramente il bagno più volentieri che in quella piccola e angusta vasca di alluminio! La zia Angelina e sempre di continuo a fare dolci e cose buone per mandare a mio cugino a Petralia. Al mattino ci alziamo presto e facciamo lunghe scorribbande nella vigna della zia in località “Purtuni“ per cogliere uva, fichi, noci, pere, zalore, e sorbe; poi passiamo in un bel boschetto adiacente a raccogliere asparagi selvatici e ciclamini; sono letteralmente innamorata della zia Angelina ed invidio mia cugina Maria Franca di avere una mamma così piena di vita, che non va tutti i giorni in chiesa a pregare e che parla sempre solo di doveri e mai di piaceri. Di Cristo, del Diavolo, di peccati mortali, di peccati veniali, di inferno, paradiso e purgatorio.
Essendo la zia la sorella minore di mamma, tra lei e mia sorella che è la primogenita, ci corre solo pochi anni; sembrano due sorelle; parlano di vestiti alla moda, di scarpe, di cose belle per la casa; la zia ha da poco fatto fare ad un bravo artigiano di Castellana, una bella vetrina in stile antico ed ora era intenta a riempirla di preziose argenterie e meravigliose ceramiche fatte arrivare da Milano.
La zia non ha problemi economici ed anche questa leggerezza di non dover tirare sempre il soldo come succedeva a casa mia, mi affascinava da morire, a volte mi chiedevo del perché mio padre non ha scelto di lavorare con lo zio che guadagnava tanti bei soldini, mentre a fare il contadino era veramente dura; una volta la siccità, una volta la grandine o la fillossera per le vigne eravamo sempre sotto zero e pensare che lui poveretto si ammazzava sempre di lavoro come un negro. Lo zio Giovanni è un po’ parsimonioso, forse non si rendono conto che la zia con dei ragazzi a studiare fuori sede, ha tante spese e allora mentre lui è chino a riempire una sella, estrae con una forbice dal cassetto del bancone, chiuso con il lucchetto, ma in cui rimane una larga fessura, un foglione rosa da diecimila lire, che nel 1948 ci si comprava qualcosa. Dovrei essere felice, l’ambiente dalla zia è quanto di meglio si possa desiderare, ma dopo aver sentito sghignazzare la donna del vicolo non mi sento più la stessa, sono alquanto turbata e poi a rendermi triste c’è anche l’incidente del povero ragazzo biondo; mi torna sempre in mente la sua testina bionda afflosciata come quella di un pulcino morto assieme al viso disperato di sua madre. Quando torna mia sorella da Palermo una mattina partiamo con la zia e la cuginetta in corriera per Petralia; portiamo uno scatolone di provviste per mio cugino Lillì che è là per studiare. Petralia Sottana pullula di studenti che arrivano lì da tutti i paesi vicini che non hanno come Castellana né le medie né le superiori. Poi andiamo a Petralia Soprana che si trova arroccata sopra Petralia Sottana; in questi paesi le donne fanno dei bei merletti e la zia se ne accaparra subito dei chilometri. Alla sera io e mia sorella Maria ci fermiamo a dormire a casa di mio fratello Mariano, che da poco tempo il partito ha trasferito a Soprana per lavorare nella federazione locale: Maria e Mariano la sera dopo cena si appartano per parlare di politica; il loro feeling continua da sempre, quando da ragazzi la sera si appartavano nel cucinotto di casa a parlare di cose importanti. Anche adesso continuano il loro forte rapporto fraterno. Mio fratello Mariano è un bel moro, i suoi occhi sembrano parlare anche quando sta zitto, ha molto successo con il popolo per quella sua incredibile comunicabilità: quando il giorno dopo andiamo tutti alla Camera del Lavoro per il tesseramento e lui fa il suo intervento insieme ad altri attivisti, si nota chiaramente che i contadini si spellano le mani per applaudirlo, per acclamarlo e lui un po’ vanitoso, si tocca compiaciuto i suoi grossi baffoni neri come la notte. La bionda sposina compiaciuta sembra vivere in funzione di lui, lui apprezza queste sue qualità ed essendo lei sprovveduta di politica le spiega tutto per farla in un certo senso partecipare al suo lavoro non facile. La sera lasciamo Petralia Soprana arroccata nel suo cocuzzolo per tornare a Castellana; quando arriviamo a casa troviamo il mio caro papà venuto a fare l’ultimo viaggio dalla campagna. Mi abbraccia forte e mi fa ridere un mondo facendomi quelle mossette claunesche in cui era molto bravo, abbracciandomi mi buca il viso con la sua barba lunga di giorni; che eccezionale buon umore! E se la mula faza lo farà irritare, con una sequenza di calci davvero pericolosi, l’unica brutta abitudine della sua vita, comincerà a tirar giù una carrellata di santi dal paradiso, ma poi ritornerà subito del suo solito buon umore, fischiettando la sua preferita “Bandiera rossa la trionferà”; idealista, ingenuo e credulone, il rapporto con il suo partito non era dare per avere, ma dare e ancora dare al suo partito, che doveva sollevare la sorte dei poveri lavoratori. In una Sicilia del 48, quando essere comunisti era quasi un reato, un contadino e come lui tanti altri, che avevano solo la quinta elementare, nella giungla del dopoguerra, andare in cerca di ideali, mi pare proprio quanto di meglio si potesse desiderare anche se poi a lungo andare tutto si è perso nel nulla. La sera a cena mia sorella portò a tavola uno spillungo di crocchette di patate fumanti ed io e Pà facemmo a gara a gara a chi ne mangia di più; per festeggiare Pà, mia sorella Maria fece anche la crema pasticcera odorosa di cannella, che guarnì con i cannittighi multicolori. Io e Pà sembravamo due bambini: lui improvvisava il suo solito spettacolino con quelle sue mossette claunesche, mettendo le dita a mo di baffi, soffiava forte come fosse un gatto soriano: “fùu fùu”. Ridemmo a crepapelle ma furono le ultime risate di un prossimo lungo periodo.
Pà si cambiò per andare alla Camera del Lavoro, dove l’aspettavano i compagni, per sfogarsi a parlare; era molto aperto e gli piaceva troppo dialogare, mentre si annodava la cravatta si rivolse a mia sorella con aria preoccupata dicendole; “Sono ormai un paio d’anni che dopo un anno intero di lavorare come bestie, abbiamo avuto ancora una mal’annata. Credimi sono tentato di vendere tutto e trasferirci al nord come hanno fatto tanti altri contadini di Castellana, che dicono di stare molto bene in Toscana è tutto un altro paio di maniche, c’è della terra fertile che dà orti meravigliosi e durante l’anno ci sono tanti raccolti, invece quà se va male l’unico raccolto estivo siamo rovinati, come quest’anno che ci siamo indebitati fino al collo, poi là ci sarebbe il lavoro per le tue sorelle, perché i campi di grano non sono adatte a delle ragazze, è un lavoro troppo duro, io vorrei il meglio per loro. In Toscana, l’ho visto quando sono andato a trovare il mio amico Michele, per le strade passano sciami di ragazze in bicicletta che è uno spettacolo e vanno a lavorare in fabbrica tutte vestite bene. Tu potresti chiedere al partito se ti trasferisce in Toscana, la Toscana e anche più rossa che la Sicilia”. Maria annuì grave e disse: “Pà tu hai tutte le ragioni, ma pensaci bene, trasferirsi non è una cosa da poco per me non credo che sia possibile ed anche per tutta la famiglia sarebbe un trauma specie per voi adulti, tu e la mamma avete le vostre abitudini che dovrete cambiare totalmente, le bambine anziché lavorare in fabbrica vorrei che potessero anzi studiare, superare lo scoglio dell’ignoranza è il primo successo per tutti”.
“Ma certo” rispose Pà, “A Pisa ci sono le università per tutti i rami! E saremo sul luogo senza che si debbano spostare. Ma tu non ti devi preoccupare perché fino a che ci sono queste manuzze” e mostrò orgoglioso le sue mani laboriose piene di calli che la zappa e tutti i suoi rustici arnesi gli lasciavano. Finalmente Pà, dopo un’accurata pignoleria nel prepararsi come un giovanotto, fu pronto e uscì, ma nel tirarsi dietro la porta per chiudere fece due passi indietro e ritornò in casa. “Ragazze” disse, mi dimenticavo di darvi la notizia più bella: “Fra tre giorni la famiglia sarà di nuovo riunita, i lavori in campagna sono finiti e perciò porto tutte le donne a casa. Antonietta e Teresa sono nere come la pece! La mamma è smaniosa di andare a trovare padre Benedetto!”. E sparì lasciandosi dietro una risata fragorosa! Quella notizia fu per me come una bastonata in testa! Ero felice di riabbracciare le mie sorelle, ma il pensiero di rivedere mia madre scatenò in me tutte i dubbi e le paure sulla donna del vicolo. La notte brividi di freddo si alternavano a sudori bollenti, i diavoletti che da qualche giorno mi avevano lasciato in pace ritornarono alla carica con i loro forconi a ballarmi davanti e più stringevo gli occhi e più li vedevo esibirsi in una frenetica danza. Chiamai in aiuto mia sorella ma non gli dissi nulla delle mie ubbie, altrimenti avrebbe concluso che farneticavo! Ella mi fece un po’ di compagnia nel mio lettino, ma sgusciò via quasi subito, era allergica a sentirsi abbracciare e sentire il contatto con altri non poteva dormire; mi lasciò la luce accesa, ma questo non mi tranquillizzò affatto anzi: la camera di mamma, dove io avevo il mio lettino era praticamente tappezzata di quadri sacri e se io facevo acrobazie per non guardare il famigerato diavoletto con il forcone, non avevo che l’imbarazzo della scelta nel trovarlo almeno in altri cinque quadri, in pose più o meno uguali. Quando pà verso la mezzanotte rientrò dalla camera del lavoro mi trovò in un lago di sudore, accostò le sue labbra alla mia fronte e scattò: “Ma questa carusa ha la febbre!”. Pà, preoccupato chiamò mia sorella che mi fece una limonata calda e rimproverò Pà per avermi fatto mangiare troppe crocchette di patate. Pà disse: “Domani starà bene!”. Quando all’alba Pà si alzò per andare a San Giorgio, accostò ancora una volta le labbra alla mia fronte e mi strizzò l’occhio compiaciuto: “Vedi che sei già fresca!”, disse piano per non svegliare mia sorella nella camera accanto. Quanta dolcezza emanava mio padre! Perché non possedere una bacchetta magica e con un abracadabra trasformarlo in madre! Lui che era di gran lunga più madre di mia madre!
Lui, che con il suo viso mi trasmetteva un’infinita tenerezza, ma che per via del suo lavoro era terribilmente assente! Ed invece lei violentemente presente! Pà, la mattina dopo partì alla volta di San Giorgio; sentii il rumore degli zoccoli spegnersi pian piano sul selciato e la mia testa tornò ad avvilupparsi di mille brutti pensieri.
L’alba mi trovò un po’ più serena, Maria mi mise il termometro che segnava solo trentasette, poi volle vedere la lingua e sentenziò che era troppo bianca. Ci vuole solo un purgante e vedrai che ritornerai come nuova! Al pensiero dell’olio di ricino mi venne la nausea, non lo sopportavo, ma con mia sorella Maria non c’èra neanche da discutere lei e mia madre erano due donne di ferro! Il giorno mi tenne leggera ma col calar della sera sentivo le gote in fiamme e la febbre salì alta. Mia sorella si preoccupò e chiamò subito il dottore che arrivò di lì a poco, tutto ansante e trafelato. Impeccabile nel suo doppio petto grigio chiaro con tanto di panciotto, trascinava ormai le sue vecchie gambe a fatica. Ormai quasi calvo con quella sua barba bianchissima, il dottore Galbo mi appariva come un grande scienziato ed io lo avevo identificato con uno di quei personaggi biblici che vedeva Gesù, adolescente tra i dotti. “Che c’è, che c’è?”, disse Galbo, con una voce rauca levando la pipa di tra le labbra e appoggiandola temporaneamente sul comò. Maria gli spiegò i miei sintomi e lui mi ficcò indelicatamente i suoi stecchini che portava nella borsa e che mi piazzava in fondo al palato per visitare bene la gola, mi alzai di scatto perché mi venne voglia di vomitare.
Il dottore Galbo bofonchiò: “Nenti, nenti, unnavi nenti! Ci vuole olio di ricino!”. “Basta! Basta non lo voglio più!”. Mia sorella ridendo disse al dottore che già me lo aveva somministrato. “Brava” disse Galbo, “ma tua madre dov’è?”. “In campagna dottore”, rispose Maria in tono rispettoso. “Ah dimenticavo! Povera figghia che d’estate è sempre esiliata a San Giorgio! Dovete rispettare vostra madre perché e una donna molto intelligente ed è anche una santa donna!”. Certo non ribattei dicendo che proprio in quel preciso momento ero convinta del contrario. Galbo aveva una vera predilezione per la mamma e a dire il vero a Castellana era amata e stimata come una donna buona e generosa; il dottore amava la mamma come una figlia; l’aveva seguita da giovinetta, aveva curato i suoi genitori, tutti i suoi bambini e seguito tutti i suoi drammi familiari, anche per questo era molto indulgente verso di lei. Poi rivolgendosi a Maria le disse: “Ma tu che fai? Ti sei messa a fare la politicante? Ah! Non sai che le donne stanno bene davanti ai fornelli? Ed ad allevare figli!”. A questo punto Maria abbandonò quell’aria rispettosa verso il dottore e diventando rossa di fuoco gi rispose: “No grazie, ho allevato tutti quelli di mia madre e di figli ne ho fin sopra i capelli!”. Il dottore rise e poi disse a mia sorella: “Ma non lo sai che chi unnavi figghi a cianciai niputi?”. Poi alzandosi dalla seggiola facendola scricchiolare per il suo soprappeso, si avviò pesantemente fuori dalla porta, scordandosi la pipa fumante sul comò, che Maria prese al volo e gli corse dietro per portargliela; mentre gliela porge gli dice: “Mi scusi dottore, dottore dimenticavo di chiederle quant’è il disturbo?”. “Nenti nenti, pi to matri tutto gratis!”. “Le manderò un po’ di cicoria”, “ecco brava, mandami la cicoria che fa bene alle budella, politicante!”. Certo Galbo sapeva che non avevamo il becco di un quattrino e per questo non chiedeva soldi, come del resto a quasi tutta Castellana. La figura simpatica ed istrionica del dottore Galbo mi portò un po’ di buon umore; pensai con tenerezza anche alla dolce signora del dottore, l’unica vera signora di Castellana ed anche nella sua vecchiezza quanto stile! Quanta signorilità! Anche con la sua faccia piena di rughe ed i capelli bianchi, un piccolo cappellino con una veletta applicata che le calava sul viso, era bellissima. La sua figura magrissima e alta, indossava sempre dei tailleur neri con una rosa in panno bianco o viola sui reverse; quando poi d’inverno indossava le sue pellicce di astrakan mi sembrava una vera contessa. In chiesa, in ginocchio nella sua panca con il nome di famiglia, era perennemente assorta ed io sapevo perché! Il suo unico figlio si era suicidato! Io ero consapevole che lei pensasse solo a lui! Galbo aveva il suo lavoro che lo distraeva ma lei, la povera signora, si era consumata nel dolore per quell’unico figlio! L’unica compagnia erano quei due enormi gattoni d’angora che miagolavano con quella strana voce rauca che a me sembrava umana. La signora si aggirava per la casa con un bastone e loro le stavano perennemente intorno miagolando raucamente. Quando qualche volta la mamma mi mandava a portarle la cicoria, la signora del dottore era gentilissima, mi piaceva soffermarmi un poco in quella casa per ammirare da una porta finestra sul retro il suo giardino pieno di gigli di S.Antonio. Quella casa mi attraeva e mi faceva paura al tempo stesso. Forse proprio per quel figlio suicidato! La parola suicidio mi riportò alla mia paura attuale. Suicidio uguale peccato mortale uguale inferno! Ecco, facevo di tutto per pensare ad altro ma la paura che la mamma potesse avere quel male che avevo visto nella donna del vicolo mi tormentava e la temperatura prese a salire. Il dottore Galbo mi fece un paio di clisteri, poi mi somministrò del chinino e la febbre passò. Io non sapevo nulla ma mia sorella Maria parlò con Galbo degli strani atteggiamenti di mia madre nei miei confronti e il dottore diede a mia sorella l’indirizzo di uno psichiatra che curò la mamma da un importante esaurimento nervoso trascurato da anni. Ecco finalmente risolto l’enigma che nessuno aveva capito, neanche pà, perché lei avendo avuto uno sdoppiamento di personalità quelle crisi evitava con cura di farle vedere agli altri. Lei per almeno un paio di anni mi aveva inflitto quella violenza psicologica a rischio di rovinarmi la vita se non avessi avuto la forza di resisterle. Ma forse la cosa non mi fece quel male che avrebbe dovuto farmi perché anche se era dura, io percepivo che non era propriamente lei a rovinarmi la vita ma un male oscuro. Avevo accuminato le mie armi contro di lei, soffrivo veramente come un cane, solo in quelle parentesi in cui lei come livida di rabbia mi si rivoltava contro come una nemica, senza sapere cosa in effetti mi rimproverasse. Avevo una forza d’animo incredibile, appena fuori dalle sue grinfie cercavo disperatamente di non pensare al suo terribile furore e cercavo con tutte le mie forze di divertirmi con la mie compagne di scuola senza mai far trapelare il mio grande dramma. Poi finalmente tirai un sospiro di sollievo, allora la mamma non era affatto indiavolata era solo malata e curandosi sarebbe guarita.
Ricomincia la scuola
è il primo di ottobre, è cominciata la scuola, sono in quarta elementare, senza quel terribile peso dentro e la paura continua della mamma quell’anno fu davvero il più felice della mia vita di bambina. Dopo aver provato per lunghi anni quei violenti temporali pieni di tuoni e fulmini che mia madre scaricava su di me, ora mi godevo la calma dopo la tempesta, ora apprezzavo appieno quel timido sole autunnale che scaldava la mia piccola esistenza. Siamo già alle vacanze di natale, la madonna dell’alto è tutta ricoperta di neve ed anche a Castellana è arrivata un po’ di neve, dai tegoli della mia piccola casetta bianca pendono i ghiaccioli. Anche quest’anno i passeri vengono a frotte sul davanzale a raccogliere le briciole che io e Teresa gli buttiamo dalla finestra. A natale la famiglia è riunita per intero: è venuto mio fratello Mariano con Santina mia cognata, è venuta mia sorella Maria da Palermo ed ha portato un cestino di frutta maturano che sembrano veri, tanto sono riprodotti fedelmente nei colori e nelle forme. Sono stati ammazzati i capretti che la nostra capra ci ha regalato con mio grande dolore, perché i capretti e gli agnelli mi facevano una grande tenerezza: la mamma ha fatto le taralle, i cucciddati ripieni di fichi secchi e uvetta della nostra vigna che poi regolarmente metteva ad asciugare nei cannizzi sui tetti. Pà ripete ogni anno i suoi proverbi: “Prima natale ne friddu ne fami dopu natali lu friddu e la fami!”. C’è infatti crisi in famiglia con la malannata Pà si è indebitato, pagando le sementi i concimi chimici non e rimasto quasi niente: le ragazze si rivoltano i cappotti riconfezionandoli da rovescio che a quel tempo devo dire lo facevano in molti; a noi piccoli ci ripropongono quello un po’ stretto dello scorso anno e per fortuna ogni tanto arriva quel famoso pacco del fantomatico zio d’America che ci rimette tutti in sesto, una vera manna! Quella grande scatola azzurra con un fascio di rose rosse stampate sul coperchio piena di pasticcini americani, che erano la fine del mondo, la scatola rimane profumata per anni dove poi la mamma ci mette le spagnolette di filo. Antonietta e Maria gli fanno decine di centri e centrini e glieli spediscono per stimolare questo zio d’America a mandarci più pacchi ma ad un tratto lo zio si estingue, non si sa che fine abbia fatto. In effetti, non era un vero zio penso che sia stato una conoscenza fatta dai miei nonni quando questi erano in America e poi naturalmente sarà morto e così è finita la pacchia.
Pà riparte per la campagna ma è molto giù di tono: lavorare come bestie senza mai riuscire ad emergere ad un livello accettabile non è certo gratificante. Tutti i suoi progetti si infrangono, le ragazze crescono c’è bisogno di posto, ma quella sua casetta rimane inesorabilmente a pianterreno non riuscirà mai a costruirvi sopra!
La famiglia è numerosa, troppe bocche da sfamare, eppure siamo dei piccoli proprietari, non siamo proprio dei pezzenti; abbiamo la terra, la vigna, la casa anche se è a pianterreno ed ora c’è anche la terra che è stata occupata di Alberì; ma cinque figli e loro due sette non sono uno scherzo, i soldi in casa nostra non attecchiscono, per comprare i quaderni la mamma, aspetta che le galline facciano le uova. Un sabato Pà venne a casa ritornando alla carica con il trasferimento in Toscana. Noi bambine gridavamo:“Si! Si!”. “Andiamocene al nord!”. Anche Antonietta sembrava entusiasta di trasferirsi in Toscana, ma la mamma che non si entusiasmava mai per niente disse: “state calme, non se ne fa nulla, i miei genitori mi hanno sempre detto che bisognerebbe morire nella terra dove si è nati. In America i miei hanno molto sofferto, anche se poi hanno sfondato, ma i primi tempi sono stati molto duri e pieni di umiliazioni”. Pà si arrabbiò e disse: “Tu sei lo spirito di contraddizione! Se io dico bianco tu devi dire nero!”. Mia madre a parte quel suo lato negativo era una persona di carattere che ponderava bene le cose e gli disse: “Non ti agitare, guardiamo come và la prossima annata e se dovesse andare male anche quest’anno ne riparleremo, ma fino al prossimo raccolto non ne voglio più sentir parlare”. La promessa di Pà di non parlare più del nord fino al prossimo raccolto fù una promessa da marinaio, perché al sabato non appena scendeva da cavallo, cominciava il lavaggio del cervello sulla Toscana; ogni volta aveva da raccontare qualcosa di nuovo su questo benedetto nord, ogni volta aveva saputo di guadagni favolosi che si fanno in Toscana o in Lombardia. “Quanto sei ingenuo”, lo incalzava mia madre, “ma lo vuoi capire che spostarsi dai propri posti natii e sempre in ogni caso negativo? E per le abitudini che cambiano da un posto all’altro e devi ricominciare tutto daccapo ed io alla mia età non ho più voglia di fare nuove esperienze!”. E poi continuò mia madre con la sua impareggiabile forza di carattere, “Se proprio devo spostarmi, lo farò solo per andare in America, laddove sono nata e da dove ho molto sofferto venendo via!”. “Non dire sciocchezze” riprese Pà, “lo sai bene che oramai sono degli anni che abbiamo abbandonato questa possibilità, perché non si poteva partire con le bambine più piccole e dovevamo lasciarle a casa e ci avrebbero raggiunto solo dopo un anno e tu non eri d’accordo, ma può darsi che le leggi dopo tanti anni siano cambiate”, riprese mà nella sua cocciutaggine! Che vita la nostra! Non era una casa normale, sembrava montecitorio! Uno comunista sfegatato, quell’altra cattolica fervente e scudo crociata! Uno predicava in un modo e l’altro sempre in modo contrario! Un giorno che lo feci notare a mio padre lui mi rispose candidamente: “Ma lo sai cara, che queste frequenti discussioni che io e la mamma facciamo di continuo si chiamano democrazia! Non sarebbe così se io fossi un padre padrone come ce ne sono molti qui in Sicilia, che battono il pugno sul tavolo e guai a chi fiata?”. Così per la prima volta capii cosa voleva dire democrazia e non soffrii più ai continui scambi di opinioni dei miei genitori. Ai primi tepori primaverili, la mia maestra, Maria Libbrizzi ci porta per l’ennesima volta a passeggio alla nostra piccola casetta diroccata, penso a un chilometro dalla scuola, lato Petralia, vi sono dei mandorli in fiore e allora il discorso cade sulla recita del mandorlo in fiore che le bambine più brave hanno provato in classe: “L’albero e il fanciullo”; una bambina rivolta ad un albero fiorito lo interroga: “Ma chi te l’ha donato? Ma chi te l’ha cucito codesto bel vestito lucente e ricamato?”. Le domande della bambina sono rivolte alla meravigliosa fioritura dell’albero e l’altra bambina risponde: “Non lo so fanciullo mio, lo sa Iddio!”. La maestra si sedeva su un muretto e noi ci facevamo intorno come la chioccia con i pulcini, “Sedetevi tutti qui intorno”, disse la maestra, “questa sarà forse l’ultima che la nostra casetta diroccata ci vedrà insieme, dopo ben cinque anni di giochi gioiosi dobbiamo purtroppo lasciarci, dobbiamo dire addio ai fantasmi di questa piccola bicocca che ci ha accolto e fatto sognare tra i suoi ruderi”. Ognuno di noi aveva colto un rametto di odorosa menta citronella e la maestra se ne ritrovò un fascio tra le mani dove affondò le sue narici anche per nascondere la commozione che l’aveva invasa. “Vi ho preso con me che sembravate quasi dei pulcini impauriti ed ecco che siete quasi delle donne! Ci vedremo ancora per il paese certo! Ma non sarà più lo stesso, ognuno di voi imboccherà una nuova strada ed avrà mille cose da fare e non avrà più tempo per me, del resto anch’io con il prossimo anno scolastico avrò i miei nuovi piccolini che avranno molto bisogno di tutte le mie attenzioni e di tutto il mio amore come ho già fatto con voi; questa e la vita! L’importante e che non dovrete mai perdere la retta via! Ci sarà sempre un bivio nella vostra vita, una strada sarà sempre invitante e stracolma di luccichii, l’altra strada sarà piena di rovi! Dovrete fare attenzione a non lasciarvi influenzare dalle apparenze perché non sarà tutto oro quello che vedrete luccicare!”. Eravamo tutte molto tristi! Che peccato dover lasciare quella donna così tenera ed affettuosa! Avevamo tutti i lucciconi, ci avviammo in classe quatte quatte, senza più dire una parola.
Un’importante decisione
Con la chiusura delle scuole, tutta la famiglia al completo si trasferì per fare il raccolto estivo. Quel benedetto raccolto che avrebbe deciso della nostra sorte; restare a casa nostra, nella terra dei nostri avi o trasferirci altrove per migliorare la nostra qualità di vita, per il nostro futuro. I muli erano stracarichi di masserizie, pentole e pentolini ciottolavano lungo il tragitto e ci facevano sembrare una carovana di cercatori d’oro dell’west. Andare a San Giorgio era sempre stato per me una cosa triste, ora poi che mio padre mi aveva contagiato con la sua smania di andare al nord, mi assentavo con la fantasia per immaginare chissà quali verdi lidi! In quel periodo mio fratello Mariano e mia cognata si erano trasferiti in Toscana dalla madre di lei, per partorire e mio fratello aveva deciso di fermarsi a lavorare a Pisa perché ora che la famiglia cresceva e i soldi che gli dava il partito non sarebbero più bastati a mantenere la famiglia. Un Giorno arrivò una foto di una splendida bambina la prima della nostra famiglia, mio fratello coalizzato con mio padre scriveva dalla Toscana ipotizzando un futuro migliore per tutta la famiglia.
La mamma era ormai rassegnata di dare il suo consenso a trasferirci a questo benedetto nord, visto che anche quell’anno la campagna prometteva male e per la siccità il raccolto era quasi compromesso totalmente. Le messi erano una pena e si andava avanti per forza d’inerzia! Pà pareva aver perso quell’amore per la sua terra, visto che lei finiva sempre per deluderlo, per tradirlo lasciandolo quasi sempre a mani vuote, le spese correvano e Pà smaniava di far fare alla famiglia quel salto di qualità che tutti ambiscono per la propria. Una mattina Pà si alzò di buonora come sempre e disse alla mamma: “Voglio fare un salto da quel balordo che abita a qualche miglio da noi, per sentire se viene qualche giorno qui da noi per aiutarci nel raccolto almeno ci sbrighiamo; in quattro e quattrotto leviamo queste quattro spighe rachitiche e dopodiché mettiamo tutto in vendita! Sei d’accordo no? Non possiamo andare avanti per niente!”. Gli occhi della mamma si fecero tristi e gravi e disse: “Vendere tutto! La nostra casa che ci siamo costruiti con le nostre mani, con tanta fatica! Lasciare la vigna di Alberì che è diventata così rigogliosa! E se poi ci dovessimo trovare male? Ho sentito parlare di una famiglia che è ritornata giù dalla Lombardia, perché si sono trovati male non sono riusciti ad inserirsi, li hanno boicottati! Li hanno umiliati!”. Pà ebbe uno scatto d’impazienza e sbottò: “Ma non vuoi mica paragonare la mia famiglia con quei poveri pastori analfabeti che stavano sempre dietro alle capre e alle pecore, abitavano sempre in campagna esiliati e non avevano avuto mai modo di socializzare con anima viva.”. Pà era furente, lui che leggeva Vie Nuove, L’unità, si portava dei libri sulla Russia anche in campagna perciò si sentiva un contadino intellettuale esplose: “La mia famiglia starà sempre bene dappertutto e poi noi non dovremo cercare la famosa casa in affitto che non danno ai meridionali, non dovremo elemosinare niente a nessuno, venderemo la nostra roba e compreremo là una casa che ho già visto che non è una casetta come questa che abbiamo qui ma e un vero palazzo con le volte pitturate da signori! Io mi troverò un lavoro che mi permetterà di far studiare le ragazze come veri cristiani, avranno così un avvenire decente senza dover sempre scavare nella terra senza alcun risultato!”. Pà era deciso e ormai non ammetteva repliche, si accinse a sellare la mula selvatica e per l’ennesima volta dovetti, con mia grande apprensione, assistere a quella specie di rito malefico che Pà ingaggiava con la mula faza! La mula era propriamente allergica alla sella e Pà per rendere più facile quell’operazione, copriva la sua faccia con la vecchia bunaca di frustagno che stava appesa ad un chiodo nella stalla esclusivamente per quello specifico uso.
Poi piano, piano, pianissimo appoggiava la sella sulla sua groppa e delicatamente gli calava il sottocoda, ma l’ombrosa e terribile mula faza, lanciava un sibilo: “Ugui! Ugui! Ugui!” E via la sella per terra lasciando Pà alquanto contrariato e livido di rabbia. Cominciava così la litania che scomodava tutti i santi del paradiso fino all’ultimo e Ma contemporaneamente cominciava a bisbigliare sottovoce per benedire a sua volta tutti i santi che ingiustamente erano stati trattati male da mio padre. Una, due, tre volte la mula prima di farsi sellare, con un calcio si faceva scivolare via la sella per terra, ma lui imperterrito non vi rinunciava, ricominciava daccapo ed alla fine l’aveva vinta Pà. Ma a quale prezzo? Finita l’operazione mio padre e la mula avevano la schiuma alla bocca. “Vengo anch’io Pà!”. Lui mi tese le braccia e mi tirò su sulla sella sopra le sue ginocchia.
Era mattino presto ma il sole picchiava già sodo, tutto intorno una zona collinare era tutto gremito di messi falciate e lasciate ad asciugare in attesa di essere trebbiate; grossi covoni in fila sembravano l’Armata Brancaleone! Le stoppie del grano falciato di fresco erano terribilmente taglienti e mi sbranavano le gambette perciò mi tenevo stretta a Pà che sbollita l’ira per la spellatura della mula faza era tornato dolcissimo come sempre e a cavallo mi raccontava un sacco di frottole che io prendevo per buone senza la minima ombra di dubbio! Pà conservava sempre quella sua eterna aria da ragazzino e così è rimasto negli anni a venire. Mio padre ritornò alla carica con il progetto nord. Fu dopo una sofferta presa di coscienza che mia madre dette la sua approvazione a quel progetto a cui era tanto contraria, lasciare quei cari luoghi le costava troppo: lasciare la terra dei suoi padri, abbandonare quelle zolle che avevano che avevano dato loro per tanti anni da mangiare, fù un vero atto di coraggio che fece in favore del futuro di noi ragazzi, disse: “Metti pure puro tutto in vendita e prego tanto Iddio che non abbiamo a pentircene!”. Sul suo viso lessi la sconfitta e grande amarezza di non poter continuare a vivere sulla propria terra e la paura per la grande incognita che ci aspettava. Finito il raccolto cominciò il via vai degli acquirenti che volevano acquistare la casa e tutto il resto. E mio padre partì per il grande passo, approfittò per andare a trovare il suo unico figlio maschio e la sua prima nata che era la nostra prima erede. Tornando a casa mio padre decantò la Toscana come una vera terra promessa: “La Toscana è stupenda! Ho già fatto il compromesso per un palazzo a tre piani ad un quarto d’ora dalla torre di Pisa, dovreste vedere come pende la Torre!”. Intanto eravamo tornati dalla campagna a Castellana ed io guardavo a quel bel paesino che avevo sempre tanto amato e che non volevo lasciare neanche per due mesi per andare a San Giorgio, come a qualcosa che per il bene della nostra famiglia bisognava pur lasciare.
La cosa che mi dava più dolore era lasciare la mia cara zia Angelina lasciare quella famiglia mi costò davvero molto, non potevo pensare di non vedere più la sua casa a me tanto cara, la mia dolce cuginetta Maria Franca dalle trecce bionde, mio cugino Lillì che consideravo come un fratello visto che avevamo vissuto in simbiosi con quella famiglia, ed anche se avendo quasi la stessa età ci eravamo fatti dei dispettucci come tutti i fratelli, sapevo che sarebbe stato il più grande dolore che avrei provato. Anche lo zio Giovanni che faceva finta di essere sornione sapevo di essere nelle sue grazie, Mario l’altro mio cugino che era in seminario lo avrei amato da lontano come avevo sempre fatto. Li avrei più rivisti? No purtroppo! Abbiamo davvero perso una cosa molto preziosa, una famiglia eccezionale, un affetto insostituibile che quando ti trasferisci ti manca da morire ed ami più che prima, ma non hai più la grande gioia di vedere, di toccare, di sentire le loro care voci, non bisognerebbe mai partire bisognerebbe cercare con tutte le tue forze di migliorare la situazione là dove sei nato, la dove non devi dimostrare di essere chi sei, perché già tutti ti conoscono da sempre e ti accettano per te stesso. Un pomeriggio quando la chiesa era deserta, entrai per prendere commiato dai miei santi che avevo ammirato per un lungo tempo, da quando appena nata in braccio a mia madre i miei occhi correvano per tutta la chiesa; ero emozionata infilai la mano nel fonte battesimale e mi bagnai tutta la manica della camicetta. Passai in rassegna tutte le mie care statue a cui ero molto affezionata, tutti i giorni passavo in piazza davanti alla chiesa e non c’èra giorno che non mi fermavo, quelle statue facevano parte di me e che forse non avrei più rivisto! La dolce Santa Teresa del bambino Gesù, che teneva in grembo un fascio di rose, mi aveva sempre fatto tanta tenerezza con quel suo visino roseo; San Michele Arcangelo, un bellissimo giovane con quella sua armatura grigio argento. Una cosa che mi faceva paura: quel grosso serpe verde scuro con la bocca spalancata rossa che il santo teneva sotto ad un piede perché rappresentava il demonio; San Biagio vestito da vescovo con i paramenti dorati, il sacro cuore di Gesù vestito come un apostolo con il vestito bianco, il mantello rosso e un po’ di barba, San Giuseppe e la Madonna; presi commiato da loro e pregai di proteggerci nella nostra nuova vita. Rificcai di nuovo distratta la mano con tutta la manica della camicetta già zuppa dentro l’acqua benedetta e lasciai la mia chiesa che mi aveva battezzato e fatto la mia prima comunione con un nodo in gola. Furono le uniche cose, gli unici affetti della mia prima adolescenza a cui diedi l’addio, perché la sera tardi mia sorella Maria che doveva recarsi al nord per un congresso di partito, piombò a Castellana e sentenziò: “Domani mattina presto si parte, ti porto con me nella nostra nuova casa in Toscana”. Rimasi interdetta, quasi spaventata per l’improvvisa e definitiva partenza che avrei voluto curare nei minimi particolari e dissi: “Ma devo salutare tutti! Non puoi aspettare un giorno di più?”. “No, no”, rispose decisa Maria, “Sono già in ritardo e poi è banale e retorico stare lì a salutare tutto il paese, meglio così!”. Mi sembrava di andare via di notte come una ladra, mia sorella mi sembrò feroce nel suo giudizio verso il paese dove in fondo eravamo stati benone, quei vicini quei conoscenti che ci avevano sempre amati e rispettati! Ma peggio di tutti sarebbe rimasta la mia cara zia! Volevo andare anche di notte ma Maria mi dissuase che dalla zia a quell’ora erano tutti a dormire e non stava bene disturbarli perché si sarebbero spaventati e poi mi disse vedrai che presto ritornerai: lo sai che io rimango a lavorare qui a Palermo quindi tu verrai a trovare me e io ti porterò dalla zia. Mi convinse, ma non fu così, non rividi più quelle care persone e quei luoghi che negli anni successivi tante volte ho sognato.
Una nuova avventura
Cominciò così la mia nuova avventura. Era una mattina di fine estate, ci avviammo prestissimo verso il corso Mazzini ad aspettare la corriera delle cinque. Castellana era ancora immersa nel sonno mattutino, solo un contadino transitava il corso con il cavallo, carico di bisacce, piene di sementi che portava in campagna.
Il cavallo si trascinava dietro un asino duro che non voleva saperne di seguirlo e ragliava a più non posso rischiando di svegliare tutti i castellanesi. Soffiava già un venticello autunnale che puliva gli alberi dalle foglie morte e gli faceva fare mulinello ammucchiandole sul ciglio della strada. Quando la SITA, la corriera, arrivando da Petralia, suonò il clacson per avvisare i paesani, ebbi un tuffo al cuore. Ero irrequieta e anche inquieta con mia sorella Maria, per non avermi avvisato prima, in modo da darmi la possibilità di salutare tutti come meritavano. Andar via così, quasi di nascosto, come una ladra, mi faceva un gran male. Salimmo sulla corriera con pochi altri passeggeri che arrivavano da Petralia. Guardai indietro per l’ultima volta. Il vento soffiava e s’infilava tra le grosse palme del corso Mazzini e a me parve che esse si abbassassero in segno di saluto. Poi più nulla. Non sarei più tornata, non avrei più rivisto il mio paese natale, né tutte le care persone che ci abitavano.
A mezzanotte, partiva da Palermo il treno che ci avrebbe condotto nella nostra nuova casa in Toscana. Anche quello fu un avvenimento, per me che non avevo mai preso il treno. I miei occhi si attaccarono avidi al finestrino, per divorare quello spettacolo nuovo di zecca. Era come se stesse iniziando il secondo atto di una favola, la favola della mia vita. Il treno, ancora a carbone, sbuffava un fumo denso e nero che si posava dentro e fuori le carrozze sporcando ogni cosa. Intravidi così dal treno, l’altra metà della Sicilia che non avevo mai visto. Rimasi sorpresa dalla vastità e dalla bellezza del paesaggio e mi sembrò assurdo doverla abbandonare. Mia sorella Maria mi spiegò che ce ne andavamo perché c’era la miseria e che come noi a milioni se ne stavano andando. Mi parve un ingiustizia, ma non replicai. Quando fummo sullo stretto di Messina, il treno entrò dentro il famoso ferry boat che ci traghettò fino alle coste della Calabria. Salimmo in coperta. La traversata fu per me una grande emozione. All’alba vedemmo le tonnare che pescavano a lu pisci spada. Avevo paura che il treno cosi lungo e pesante potesse far affondare il traghetto ma Maria mi tranquillizzò. Il treno, sbuffando e arrancando, scalò lo stivale, che risultò essere decisamente lungo, ma io ero felice di viaggiare su quel treno e malgrado la curiosità di vedere la mia nuova casa avrei voluto prolungare quel viaggio all’infinito. Roma! Conoscevo il suo nome per averlo sentito pronunciare quasi con rispetto dalla bocca di mia madre o da quella di padre Benedetto. Mentre aspettavamo la coincidenza per Pisa, facemmo un giro in carrozzella. Ero affascinata dalla bellezza e dalla grandezza di Roma che mi faceva sentire così piccola e spaventata. Stringevo forte la mano di Maria senza lasciarla mai. Il treno ripartì e io ripresi la mia osservazione. Nel treno c’era un’atmosfera quasi di festa. Si creava negli scompartimenti un cameratismo incredibile e la gente si faceva partecipe delle proprie gioie e dei propri dolori. Non come oggi, dove ognuno è preso dalle sue cose ed è diffidente verso tutto e tutti. A mano a mano che salivamo verso nord, vedevo cambiare il paesaggio. Quando il treno varca il confine della Toscana, mi alzo di scatto perché penso sia ora di scendere, ma Maria mi spiega che ancora non siamo arrivate. Mi piace sentire, nelle stazioni, il ragazzo del ristorante che grida con quella voce cantilenante: “Caffè! Panini! Aranciate!”. Qualche signore si affaccia affannato dal finestrino per comprare il giornale e invariabilmente c’è sempre il ragazzo dell’edicola che si tiene il resto, mentre il treno si muove e il viaggiatore rimane con un palmo di naso!
Mentre sto andando alla toilette vedo scompartimenti pieni zeppi di famiglie del sud con le classiche valigie di cartone, legate con lo spago. Chiedo a Maria “Chi sono quelli, dove vanno?”. “Quelli”, risponde con tono polemico, “sono dei poveracci come noi, costretti dallo stato, a emigrare come noi per poter sopravvivere”. “Chi è lo Stato?”, chiesi io, piena di antipatia per costui. “Ah!”, fece Maria, “dopo aver raccolto duemila firme per la pace, ancora non sai chi è lo stato? Lo stato è quel gruppo politico che ci comanda e che non ha mai fatto abbastanza per tirar fuori dalla miseria, dalla mafia e dalla disoccupazione la nostra Sicilia, perché come diceva lo scrittore Tommasi di Lampedusa, in Sicilia cambia tutto per non cambiare niente”. “Ma perché?”, chiesi ancora stizzita. “Perché così gli fa comodo.
Perché lasciandoci nella miseria e nell’ignoranza tutti voteranno sempre per quelli che comandano ora!”. Ma in treno si fa presto a cambiare argomento e ora che siamo nella regione che ci ospiterà, un pensiero impellente mi martella, “Come sarà la mia nuova casa?”. Pà dice che è addirittura un palazzo. Dalle stalle alle stelle? Da una mezz’ora è entrato nel nostro scompartimento un bel vecchio, con i capelli bianchi che fuma la pipa ininterrottamente e con evidente soddisfazione.
Mi sento osservata. Il vecchio intreccia con Maria una fitta conversazione. è una persona molto intelligente e racconta che sta tornando a Milano, dopo un viaggio a Roma. è di destra e con Maria si trovano a parlare lingue diverse. La conversazione si fa via via, più vivace. Il signore rimane sorpreso di trovare in mia sorella una così abile conversatrice. Poi il signore si mette a parlare con me e io rispondo volentieri alle sue domande. “Dove va questa piccola e bella sudista? Se ho ben capito vi trasferite qui da noi?”. “Si”, risposi con sussiego. “Vado ad abitare vicino alla Torre Pendente!”. “A Pisa?”, rispose il vecchio, canzonandomi. “Ma lo sai tu cosa si dice dei pisani? Si dice che è meglio un morto in casa che un pisano alla porta!”. Il vecchio diede ancora un avida tirata alla sua pipa e fu poi scosso da una brutta tosse che lo fece diventare paonazzo. Poi riferendosi alla pipa, disse quasi tra se: “Se non abbandono questa amante che mi trascino dietro da sempre, presto ci lascerò la pelle! Va bè, che ormai ci lascerò presto la pelle in ogni caso, tanto vale non tradirla proprio all’ultimo!”, e così dicendo, accarezzo la sua pipa dando un’ultima avida tirata. Poi si rivolse ancora a mia sorella e ripresero a parlare di politica. “Lei signora è da ammirare, perché è raro di questi tempi, che una donna abbia un lavoro importante come il suo, ma se permette vorrei darle un consiglio. Non è molto tempo che siamo usciti dalla guerra. Ho perso mia moglie e tre figli!”. Il vecchio aveva gli occhi lucidi e senza rendersene conto aveva preso ad aspirare la sua pipa ininterrottamente. “Ho vagato a lungo scappando per anni dalle grinfie dei miei carnefici e sono stato laddove lei crede che ci sia il paradiso comunista! Cara ragazza”, continuò il vecchio, “non è come lei crede, o meglio, come vorrebbero farle credere! In unione sovietica è come da noi qualche anno fa: miseria, fame e terrore! Mi faccia una cortesia: abbia sempre nella vita solo dei dubbi, perché cosi potrà scavare per trovare la verità. Ma mai delle certezze, perché nella vita non si è mai certi di niente, in politica poi è come una giungla! Ci sono le fiere e appena ti lasci andare un attimo, loro ti sorprendono, ti sono addosso e ti sbranano!”. Il treno rallentava la sua corsa. Eravamo finalmente arrivate a destinazione. Ero esausta e avevo le caviglie gonfie, ma ero felice.
Il vecchio prese la mano di mia sorella e la trattenne un attimo tra le sue. “Mi raccomando”, le disse ancora “solo dubbi. Perché quello che lei crede un impero solido, crollerà!”. “No”, disse maria, “non credo!”. Poi si rivolse a me, dicendo “addio, mia piccola sudista, io e te, certo, non ci rivedremo mai più, perché tu sei all’alba e io al tramonto; mi raccomando, tieni duro con i pisani!”. Il treno si mosse, il vecchio si affacciò dal finestrino e sorrise benevolo salutandoci, con la sua pipa fumante, in mano. Salimmo su una carriera, per paura che il viaggio in taxi sarebbe costato troppo. La corriera lasciò la città e s’inoltrò in aperta campagna. Ogni tanto si vedevano piccoli gruppi di case contadine e grandi distese di spinaci e cavolfiori. Spesso incontravamo grossi capannoni industriali e ancora campi coltivati. Non ero affatto tranquilla. “Dove era andato Pà a comprare la nostra casa?”. Dopo un po’, la corriera ci scaricò all’indirizzo che mia sorella aveva dato al conducente. Era un piccolissimo centro abitato, piuttosto grigio.
Ci mettemmo alla ricerca della nostra casa, ma ahimè non era il posto giusto. Forse un’indicazione sbagliata ci aveva perdute.
Chiedemmo informazioni e ci incamminammo percorrendo una strada che si inoltrava sempre di più nella campagna, in mezzo a cavolfiori e spinaci. La strada, che a tratti era sconnessa era attraversata da barrocci pieni di queste verdure e da grossi camion che trasportavano sabbia, grondante acqua, che estraevano dal fiume Arno. Io e Maria ci guardavamo deluse, senza parlare. Il nostro sguardo avvilito era fin troppo evidente! “In nome di Dio!”, sbottò mia sorella piuttosto accaldata per il caldo e la fatica del viaggio, che durava già da due giorni. “Dove è andato a ficcarsi Pà? Altro che palazzo, avrà comprato una catapecchia peggio della nostra! Dovevamo mandare mamma a comprare la casa! Babbo è sempre stato un ingenuo!”. Dopo qualche chilometro ancora di pianura a spinaci, cavolfiori e granoturco, cominciammo a intravedere il campanile di una piccola chiesa che stava dentro un piccolissimo centro abitato, dove vi erano solo una decina di vecchia e fatiscenti case contadine, tutte attorniate da rigogliose e verdi colture. Eravamo vicine e dopo una svolta vedemmo una grossa villa con un cancello molto alto con tanto di iniziali.
Quella casa era maestosa e al terzo piano c’era un’enorme lucernario ad arco che dominava la facciata. Al di là del vecchio cancello vidi le mie due sorelle Antonietta e Teresa che erano venute via qualche tempo prima, quando mia cognata aveva dato alla luce la mia prima nipotina. Le nostre grida di sorpresa s’incontrarono ed io fui invasa da un’immensa gioia. Quella dunque era la mia nuova casa! Non credevo ai miei occhi! La mia piccola casa di Castellana non reggeva il confronto. Vederla dentro accrebbe il mio entusiasmo: la casa era davvero splendida e io mi sentivo quasi in soggezione. Tutti i soldi di famiglia, derivanti dalla vendita della casa e della terra a Castellana erano stati investiti nella nuova casa e ora eravamo di nuovo al verde. Ma avremmo lavorato, non avevamo fatta tanta strada per questo? La casa ha dei locali molto spaziosi e le grandi stanze sono separate da grossi ingressi con il pavimento in granito screziato e le greche ai lati. I soffitti sono tutti a volta e affrescati come nelle chiese; il portone centrale è faraonico, almeno tre volte più grande di quello di Castellana e sopra ci sono le iniziali del vecchio proprietario, in ferro battuto. Le finestre sono altissime, dotate di robuste inferriate e zanzariere. Solo più tardi avrei capito il perché: c’era pieno di zanzare che ti succhiavano il sangue come vampiri. In fondo all’ingresso principale c’era una porta che conduceva a una cantina che era più fresca di un frigorifero.
Dal secondo piano si vede la chiesa che si trova lì a due passi e tutta la strada maestra per chilometri. Dal terzo piano e dalle mansarde che hanno finestre piccolissime, si vede il fiume Arno, che bagna la piccola frazione chiamata Zambra. Sul retro della casa verso il vigneto a ridosso della grande casa vi è una costruzione che ospita il tino in cemento per la pigiatura dell’uva del vigneto. Siamo felici, la nostra nuova dimora non poteva essere meglio di così. Ma finite le vacanze, mia sorella Maria ci comunicò che dopo le vacanze sarebbe tornata in Sicilia e che niente l’avrebbe fatto lasciare il lavoro al partito, che tanto la appagava. Mio fratello la sostenne in questa decisione. Sentii un’incrinatura nella sua voce; forse era la delusione per non poter fare altrettanto. Ma ora che la famiglia era cresciuta e mia cognata aspettava nuovamente un bambino, era stato costretto a fare delle scelte. A giorni sarebbero arrivati i nostri genitori e sarebbero venuti anche i nonni che avevano deciso di seguirci.
Fu un gran giorno, quello che ci vide tutti riuniti. All’appello mancava solo mia sorella Maria. Mio padre aveva deciso di assecondare il suo desiderio perché si fidava dei suoi figli. Una vera mosca bianca per quei tempi in Sicilia, dove il padre e padrone era la norma.
Non dimenticherò mai quel giorno in cui mio nonno, con la sua sclerosi galoppante, mi apparve come un ciclone che tutto devastò al suo passaggio. Quando scesero dal treno, mio nonno che era stato tanti anni in America, abbordò tutta la gente che incontrava rivolgendosi loro in americano. Credeva, questo pover uomo, di essere tornato in America. Certamente mia nonna lo aveva ingannato per far si che ci seguisse volentieri. “Azo rait, Azo rait”, continuava a ripetere mio nonno, guardandosi intorno. Malgrado non ci stesse più con la testa si rese conto di non essere in America e allora si arrabbiò, divenne violento. Aveva capito di essere stato ingannato; i toscani poveretti lo guardavano sbalorditi e ridevano mentre io, che ne avevo una gran paura, lo odiavo perché temevo che ci facesse fare brutta figura. Alto com’era, con quel mantello double face verde e blu, quegli stivaloni, quel grosso naso che non avevo mai notato e il bastone che teneva sempre in mano, sembrava davvero pericoloso e quella povera nonnina piccola piccola che gli sopravvisse e sfiorò i cento anni; mentre lui, pover’uomo, dopo l’arrivo in Toscana, sopravvisse solo un paio d’anni. Ma quel tempo che campò, diede filo da torcere a mia madre che era l’unica che stimava del resto. Gliene combinava di tutti i colori lo stesso e le diceva che lei era il diavolo e per questo la temeva. Tutto intorno alla casa c’era un grande vigneto, tutto fatto a pergolato. Pendevano da quei pergoli, grossi grappoli d’uva colombana; c’erano molte piante di pesche Birindelle, c’erano pere, mele, prugne, cachi e grosse piante di noci che facevano una magnifica frescura. Ora non eravamo più arrabbiati con mio padre perché non aveva saputo scegliere la dimora che ci vedeva uniti e felici. Mio fratello Mario e sua moglie Santina erano felici di stare insieme a noi e in quella grande casa, non era lo spazio che mancava. La piccola nata, Beatrice era il nostro orgoglio e il nostro divertimento e presto ne sarebbe arrivata un’altra.
La gioia di quella bella casa compensava un po’ il fatto che si trovasse in un posto così desolato, in cui non c’era altro che la chiesa. Per la mamma andava benissimo, che tanto lei stava più in chiesa che a casa. A me invece mancava il cinema; mi sarei accontentata anche di quello estivo, come l’Averna a Castellana. La zona era invece piena di piccole industrie, laboratori artigianali che trattavano soprattutto calzature e maglieria, che non era certo di prima scelta, perché per lo più destinata al terzo mondo. Questo tipo di attività assorbiva larga parte della manodopera femminile locale. Così, tre volte al giorno, vedevo passare davanti alla mia casa, sciami di gioiose e graziose fanciulle, con gonne multicolore svolazzanti che pedalavano in bicicletta e sbucavano come formiche un po’ dovunque per raggiungere il lavoro. Io ancora non ero capace di andare in bicicletta e le guardavo ansiosa di far parte anche io di quell’allegra brigata. In un nucleo familiare c’erano tre o quattro generazioni e vivevano in perfetta armonia, con un rispetto forse anche esagerato nei confronti dei vecchi della casa che poi erano anche quelli che gestivano l’economia della famiglia. Anche se uno lavorava in fabbrica, doveva comunque versare i suoi soldi alla nonna, che li avrebbe saggiamente amministrati per tutti. Le loro case non erano come la nostra che era quella del signore del luogo, ma piccole case contadine con i mattoni rossi in terra, che le giovani della casa ravvivavano con la cera rossa, rendendole linde e decorose. Il bagno era quasi inesistente, il gabinetto rimaneva quasi sempre al di fuori della casa e si riduceva ad uno sgabuzzino rustico con un minuscolo quadrato di luce per finestra. Mi innamorai letteralmente della terra e dei toscani. Ero tutta tesa nella metamorfosi toscana, volevo vivere alla toscana, parlare alla toscana, mangiare alla toscana.
Le donne toscane cucinavano zuppe di cavolo divine, zuppe di pesce eccellenti, lasagne al forno e crostini di fegatini buonissimi.
La bicicletta
Venne il momento di imparare l’arte di andare in bicicletta.
A distanza di anni a ripensarci mi viene da ridere. Penso che i nostri vicini di casa qualche risata devono essersela fatta a vedere dei ragazzi già grandicelli imparare ad andare in bici. Per noi giovani non fu poi un grosso problema anche se ricordo una volta che andai a finire in un fosso e la bici sopra di me, con i raggi che girando a gran velocità agguantarono i miei riccioli, facendone scempio. Il compito per Pà fu certamente un po’ più problematico; a cinquant’anni non si è più tanto agili come a quindici e poi lui aveva preso l’abitudine di sedersi proprio in punta del seggiolino e per non perdere l’equilibrio, correva come un pazzo, suscitando la nostra ilarità che ridevamo come pazze. Erano passati due anni; in un frullo avevo già 14 anni. Studiare non era stato possibile, perché l’economia della famiglia non era cresciuta come avevamo pensato. Credevamo che avremmo potuto guadagnare qualcosa dalle stanze del palazzo che avevamo affittato, ma gli affitti all’epoca erano bloccati e perciò molto bassi. Eravamo tutti sulle spalle di mio padre, che per fortuna aveva trovato lavoro in una distilleria di liquori. La mamma, che ora sta meglio, deve gestire la casa. Lavare, stirare, cucinare; in pratica tutto quello che a Castellana, faceva mia sorella Maria.
E poi deve stare attenta la nonno che è fuori di testa. Un giorno, eludendo la sorveglianza di mia madre e approfittando del grande cancello rimasto aperto, era scappato. Aveva guadagnato chilometri, con quelle sue lunghe gambe, correva come un ossesso e in pieno inverno si apprestava a fare il bagno nelle acque gelide del fiume Arno. La mamma, accortasi della fuga, aveva sudato sette camicie per riportarlo a casa e lui furente gli aveva gridato: “Donna assatanata, non ce la farò mai a liberarmi di te?”. Povera mamma, le dava un gran da fare. Alla vista di un aereo si eccitava e cominciava a sbracciarsi e a gridargli in americano di atterrare, perché lui voleva che lo portassero in America, perché noi lo tenevamo prigioniero.
Povero nonno, erano già tanti anni che era ridotto così, già prima di partire per Castellana. Antonietta lavorava in casa alla macchina da maglieria, ma con i soldi che gudagnava doveva farsi il corredo, perché si era fidanzata con un ragazzo che veniva anche lui da Castellana: Illuminato Bencivinni. Io ho cominciato a lavorare in un calzificio e Teresa in un calzaturificio; ma guadagnavamo poco, essendo apprendiste. Mio padre lavorava fino alle 17 in fabbrica e quando tornava a casa andava nell’orto, aiutato dall’agilissima nonna. Povero Pà, correva a destra e a sinistra più che quando eravamo in Sicilia e con quella bici sembrava Fausto Coppi. Ora che non potevamo più contare sui generi di prima necessità come il grano, la farina, il pane, i salamini, che ci dava il maiale che allevavamo, dovevamo comprare tutto. I soldi che guadagnava Pà, bastavano a fare la spesa e a comprare qualcosa per la casa che mancava sempre. Al mattino partivo in bicicletta e andavo a comprare borsate di roba da Gino, un toscano dal cuore d’oro. Gino ci faceva credito, lo pagavamo alla fine del mese quando Pà prendeva lo stipendio.
Anche Maria, sua moglie, era molto gentile. Non erano i classici commercianti che non guardano in faccia nessuno; erano invece disponibili, forse perché capivano le nostre difficoltà e il nostro spaesamento. Tutte le cose che si trovavano nel bottegone di Gino, pur essendo le solite di Castellana, avevano un nome diverso.
Era una Torre di Babele. Ricordo un tipo di minestrone che si chiamava “Avemaria”, o un tipo di maccheroni che i toscani chiamavano “Maniche di frate”. Gino e Maria avevano un’infinità di cose buone e quando entravi nella bottega, venivi investito da un prorompente odorino di olive e acciughine marinate che Gino preparava personalmente con aglio, prezzemolo e peperoncino. Compravo due borsoni di generi alimentari, poi infilavo le borse nel manubrio e pedalavo badando di non finire nelle fossette che si trovavano sul ciglio della strada. L’inserimento nel nuovo tessuto sociale non fu un problema per mia madre; a lei erano bastati i pochi metri di suolo sacro che trovava in chiesa. Era rimasta nel suo habitat naturale.
La casa e la chiesa. La nonna, che da giovane era stata una birichina, amante del pettegolezzo, viva e ciarliera, ora che aveva raggiunto la ragguardevole età di 90 anni, sotto le grinfie di mia madre era diventata pure lei una pia donna e non si perdeva neanche una funzione. Pà aveva ripreso a frequentare il mondo comunista, come a Castellana e la domenica sera andava a distribuire L’Unità.
La sera montava sulla sua bicicletta, appena appoggiato sul sellino e correva come un pazzo al circolo dei compagni per fare una partita a scopone scientifico. Era già il secondo inverno che ci trovavamo a in Toscana e io ero diventata donna finalmente! Dopo tanto attendere, quella piallatura che avevo davanti si era un tantino animata e si cominciavano a vedere qualcosa come due melette.
Le ragazze della mia età erano già da tempo munite di una avvenente carrozzeria. Ero in ritardo e dovevo darmi da fare.
La mamma quell’inverno, da un pezzo di stoffa marrone spigato, comprato al centro rionale, che sembrava più una stoffa per un uomo attempato che per una ragazzina, aveva confezionato un cappotto. Ne era uscita una cosa troppo maschile e grossolana.
Proprio ora che volevo rimediare al tempo perduto e apparire finalmente una signorinetta. Ma non c’era scelta, o bere o affogare!
Con i miei primi risparmi comprai al mercato un cappellino di pelliccia sintetico verde acqua, ma il risultato non fu granché perché con quel cappottone maschile, sembravo un palo vestito.
Mio fratello Mariano, che lavorava a Pisa, conobbe un signore torinese che aveva un calzificio, proprio a due pedalate dalla frazione dove abitavamo e mi fece assumere. La mattina che andai per la prima volta a lavorare in bicicletta ero molto emozionata; non sapevo cosa mi aspettava. Il padrone era severo ma l’ambiente era gioioso, perché ci lavoravano venti ragazze come me sui quindici anni. La mattina le ragazze mi suonavano i campanelli delle bici e io mi aggregavo a loro felice di far parte di quegli sciami gioiosi, che avevo subito notato quando eravamo arrivati in Toscana. Per pranzo portavamo un tegamino che scaldavamo nell’autoclave della fabbrica e un uovo in salsa per secondo. C’erano anche delle signore in fabbrica, anche loro molto carine e simpatiche, che mi misero subito a mio agio. Ce n’era una più anziana delle altre, con i capelli rossi e la faccia piena di “crusca” che sparlacciava a sproposito e cominciava a introdurre nelle nostre testoline il discorso sesso. D’inverno, dopo aver mangiato, scendevamo fuori in un cortile adiacente la fabbrica e innescavamo un duello di palle di neve.
Rientravamo in fabbrica livide di freddo e zuppe di neve, ma raggianti di felicità. Nel frattempo, mio padre per migliorare le nostre condizioni economiche, aveva deciso di affittare le mansarde che avevano una loro entrata indipendente che dava sulla strada, mentre per noi tenemmo il pianterreno che dava nell’aia con il grosso cancello. Tra gli inquilini delle modeste mansarde, dove in alcune stanze si toccava il soffitto con la testa, erano venuti ad abitare una giovane coppia con un ragazzo della mia età che si chiamava Bruno ed era molto bello. Sulle prime credetti che Bruno fosse loro figlio, ma una sera che ero salita da loro per portargli la ricevuta dell’affitto, seppi che Bruno era il fratello di lui e che stava con loro perché non aveva più i genitori. Avevo già notato sul suo bel viso una grande tristezza che io avevo scambiato per superbia. Bruno mi aveva fatto una grande tenerezza e nell’intento di volerlo consolare, era nato dentro di me un dolce sentimento per lui. Mi sorprendevo a fargli la posta la domenica mattina. Quando lui scendeva mi facevo trovare per le scale per ricevere da lui un sorriso, una parola; ma eravamo soltanto due bambini e lui nel vedermi avvampava e proseguiva oltre. Un giorno il fratello di Bruno trovò lavoro lontano e si trasferirono altrove. Così da un giorno all’altro persi il mio primo amore platonico senza che peraltro lui lo sapesse. Avevo ormai diciassette anni e mi ero fatta molto carina, almeno a giudicare dagli sguardi degli uomini, ma anche delle donne a cui ero molto simpatica. Aprirono una piccola sala da ballo alla camera del lavoro. Fu per me un vero successo! Giovani e vecchi volevano ballare con me; se fossi vissuta in un’altra epoca, avrei avuto il carnet sempre pieno. Ero felice e nessun posto mi sembrò così bello come quella desolata campagna. A Castellana c’erano un cinema estivo e una farmacia, ma per arrivare a Palermo ci volevano almeno due ore e specialmente quando si doveva raggiungere l’ospedale in fretta, era un problema serio. Qui dove abitavamo ora era soltanto una campagna di spinaci e cavolfiori, ma bastava prendere un pullman che passava davanti alla casa ogni mezz’ora e potevi raggiungere Pisa in quindici minuti. Pisa era una grande città piena di opere d’arte e di un ospedale all’avanguardia. C’erano negozi a non finire e tanti cinema dove si proiettavano spesso delle prime visioni e teatro a volontà. D’estate prendevamo un trenino che ci portava alla spiaggia di Tirrenia o a Marina di Pisa. A volte la domenica andavamo nella Tenuta di San Rossore dove si poteva visitare la reggia che aveva ospitato il re, quando c’era ancora la monarchia.
Mi sembrava di essere nata solo ora, mi sentivo finalmente protagonista. I miei primi anni di vita trascorsi al sud, mi sembravano ora passivi e privi di importanza. Cercavo di non pensarci troppo anche perché mi tornavano a volte in mente i momenti più brutti della depressione di mia madre. La cosa che rimpiangevo di più era la mia Castellana, le amichette, i vicini di casa, ma soprattutto la mia cara zia Angelina e i miei cuginetti. L’attività politica in famiglia era quasi scomparsa e a parte mio fratello Mariano che si era dedicato al commercio e nei ritagli di tempo si dedicava al sindacato, noi avevamo il nostro lavoro che non ci lasciava tempo per altre attività, se non per piccole cose come la distribuzione dei giornali: “Noi donne”, “Vie nuove”, “L’Unità”. Era intanto arrivata l’ultima erede della famiglia che era un vero amore e si chiamava Marusca. Ambedue quelle bambine rappresentavano per la famiglia il futuro, qualcosa di concreto su cui riversare il nostro amore. Beatrice, che era la più grande, la mettevo dietro, sulla bicicletta e lei con le sue manine mi abbracciava stretta per non cadere. Già a tre anni era capace di cantare e di fare innumerevoli cose di cui tutti si meravigliavano. Ora che nella famiglia mancava mia sorella Maria che teneva vivo in noi l’interesse per la politica, ci eravamo un po’ lasciati andare. Eravamo diventati più individualisti; ognuno correva a destra e a manca per sbrigare le sue cose. Anche perché in Toscana, le condizioni dei lavoratori non erano come quelle siciliane. C’era lavoro per tutti, anche per le nonne che ricamavano a domicilio, contribuendo all’economia delle famiglie. Maria veniva soltanto a Natale e a Pasqua, portandoci dalla nostra terra quelle cose tradizionali che per tanti anni avevano fatto parte della nostra cultura e che tanto ci mancavano. La ricotta salata che si sposa bene con la pasta al pomodoro, i pasticciotti, la cassata, la bottarga che bastava grattugiarne un pochino sugli spaghetti che diventavano deliziosi.
La famiglia si era inserita bene nel tessuto sociale. Non era poi molto diverso da dove stavamo prima; era ancora una cultura contadina, cambiavano più che altro le colture e il clima. Mentre al sud si seminava più che altro grano, ceci, lenticchie e fave, al nord si seminavano spinaci carote, cavolfiori, fagiolini e una miriade di altri ortaggi. C’era però da dire che fare il contadino al nord era molto più agevole che farlo al sud. La terra era fertile, ben irrigata e il terreno era così friabile che sembrava farina. Quando alla sera, Pà tornava dalla fabbrica, andava nell’orto e gli sembrava quasi di giocare nel fare lunghi solchi, in quella che sembrava sabbia di mare. Mentre al sud i contadini portavano ai piedi grossi scarponi chiodati o le scarpe di “pilo” per difendersi dal duro terreno e dagli sterpi, in Toscana i contadini vanno felici scalzi su quel terreno che sembra sabbiolina. I contadini locali sono molto gentili con Pà e gli insegnano volentieri i trucchi del mestiere. Come si pota un albero di pesche o in che periodo seminare questo o quell’ortaggio. Pà è contento, nessuno di noi ha dei rimpianti per avere fatto il grande passo. Forse mio fratello mariano rimpiange di non fare più comizi, i congressi, le conferenze e soprattutto di non lottare più per la causa dei lavoratori. A compensare queste mancanze c’erano due bellissime bambine e credo che gli bastasse una loro carezza per fargli dimenticare le sue piccole tristezze. Era un periodo in cui lo specchio mi rimandava un’immagine che mi piaceva molto, ma più diventavo carina e più diventavo cattiva e arrogante. Poi venne il giorno del matrimonio di mia sorella Antonietta. Fu per me un brutto giorno perché non potevo stare neanche un giorno senza vedere mia sorella che riusciva a darmi quella carica quasi materna di cui avevo un bisogno assoluto. Loro erano una coppia favolosa e anche con mio cognato si era stabilito un bel feeling; mi voleva bene come se ne vuole a una sorellina più piccola e mi coccolava, portandomi spesso con loro. Poi arrivò una bambina meravigliosa dagli occhi di giada, a cui io scelsi il nome di Gianna. Le feci da madrina e l’amai sempre come fosse la mia. Mia madre aveva il suo bel da fare a tenere testa a quelle tre viperette che eravamo diventate io e le mie sorelle. Il lavoro ci aveva reso indipendenti e non volevamo più sottostare alla sua personalità carismatica. A un tratto non volevamo più i suoi consigli, non volevamo più attingere a quella che era stata fino ad allora la nostra cultura. Eravamo ormai imbevute della cultura toscana e rifiutavamo in blocco quello che veniva dal sud. La mamma poveretta assisteva impotente e sgomenta questa metamorfosi, sentiva che le stavamo sfuggendo di mano e il suo cuore si riempiva di una grande amarezza. La famiglia che lei e Pà avevano amorosamente costruito, pezzo per pezzo, tendeva a scricchiolare e a sgretolarsi e lei non sapeva come fare a tamponare quelle falle che nella nostra barca facevano acqua da tutte le parti.
Ecco, questo potrebbe essere stato il lato negativo del nostro trasferimento: lo sconvolgimento morale nella nostra famiglia, dovuto al cozzare di due culture diverse. Noi non riconoscevamo più nella cultura dei nostri genitori, quella che era diventata la nostra nuova vita e di conseguenza non volevamo più rispettare i vecchi valori. Anche a distanza di anni penso proprio che restare nella propria terra di origine sia una fortuna unica e impareggiabile. Forse sono arrivata a questo rimorso nei confronti dei miei genitori, solo dopo la loro morte, perché penso che i nostri cari non muoiono mai, ma restano per sempre dentro di noi.